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Arte e Cultura

Possiamo tutti, sempre, riflettere un secondo di più su quanto stiamo per dire o scrivere

Vera Gheno
Di Vera Gheno
Vera Gheno è una sociolinguista. Nasce in Ungheria nel 1975. Si laurea e si addottora in Linguistica presso l’Università di Firenze, specializzandosi sulla comunicazione mediata dal computer. Insegna all’Università di Firenze (Laboratorio di italiano scritto), all’Università per Stranieri di Siena (Applicazioni informatiche per le scienze umane) e al Middlebury College, sede di Firenze (Sociolinguistica). Collabora con l’Accademia della Crusca dal 2000. Al momento è membro della redazione di consulenza linguistica e gestisce il profilo Twitter dell’ente. Ha pubblicato un libro, “Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi)” con Franco Cesati Editore.
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Pubblicato il 30.08.2017 alle 14:48

Come ribadisco spesso, comunicare tramite la facoltà del linguaggio è capacità squisitamente umana. Ne consegue, secondo me, che dovremmo tutti impegnarci per usarla nel modo migliore. Qualche tempo fa, alla richiesta di fornire i miei tre consigli per comunicare bene, avevo dato queste risposte:

  1. Occorre avere in mente un’idea chiara di quello che si intende comunicare.
    Come ricorda anche Italo Calvino in Lezioni Americane, in particolare nella lezione sulla precisione, è utile avere “un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato”. Perché? Alla fine, parliamo e scriviamo bene solamente se ci siamo prima fatti un’idea sufficientemente precisa di quello che vogliamo comunicare. Anche chi improvvisa, a dire il vero, lo può fare bene perché molto probabilmente conosce bene l’argomento (chiedete a chi partecipa ai match di improvvisazione teatrale quanta preparazione ci stia dietro). Quando si interagisce a voce, chiaramente, si ha meno tempo per pensare, mentre la scrittura, almeno teoricamente, ci mette a disposizione un momento di riflessione più ampio. In questa ottica, anche l’impulsività con la quale spesso rispondiamo sui social non è giustificata: nessuno ci vieta di prenderci un attimo per riflettere su quello che stiamo per pubblicare su Facebook o su Twitter.
  2. Occorre cercare le parole giuste.
    Le parole non sono tutte uguali, e perfino i sinonimi raramente lo sono del tutto; quasi sempre, un termine avrà un significato più o meno ampio di un altro (es. impianto di riscaldamento e caldaia), o essere di un registro più o meno alto: letterario, scherzoso, colloquiale e così via (es. donzella, ragazza e pupa). Ancora, un termine sarà specialistico (quindi più preciso, per gli “addetti ai lavori”) e un altro più comune (più largamente comprensibile), come cefalea e mal di testa. Ogni scelta lessicale sarà la scelta più azzeccata per determinato contesto, e questa riflessione spetta a noi che stiamo comunicando a seconda di quello che stiamo cercando di veicolare, al contesto e agli interlocutori ai quali ci rivolgiamo. Ci può aiutare la consultazione di un dizionario dei sinonimi e contrari, che normalmente fornisce indicazioni specifiche sulla natura dei vari termini di significato analogo.
  3. Se possibile, sarebbe meglio ricercare la brevità, che è un punto di arrivo, non di partenza.
    “Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve”, scriveva Pascal quasi quattrocento anni fa, citato anche da Luisa Carrada, che consiglio di leggere su tema (ma anche su tutto quanto riguarda la comunicazione). Sovente, finiamo il nostro percorso scolastico convinti che sia meglio creare testi lunghi, dalla sintassi complessa, infarciti di termini roboanti. Abbiamo innegabilmente una certa tendenza al barocchismo, in Italia. Questa tendenza, però, può venire combattuta. E quindi: meglio evitare inutili complicazioni e, rileggendo, cercare di depurare il testo da tutto ciò che è superfluo. Non facciamoci spaventare dal labor limae, il ‘lavoro di lima’: fa parte anch’esso del processo comunicativo.

A questi tre punti, aggiungerei cinque consigli ancora più pratici, che potranno trovare riscontro in qualsiasi manuale di scrittura:

  • L’ordine tipico della frase italiana è SOGGETTO-VERBO-OGGETTO: “Il bambino mangia la mela” è la frase che il nostro cervello decodifica nella maniera più veloce rispetto, ad esempio, a “Mangia la mela, il bambino”.
  • La forma attiva del verbo è più immediatamente comprensibile di quella passiva: “Luigi ha lanciato la palla” vince, in quanto a chiarezza, su “La palla è stata lanciata da Luigi”.
  • La forma personale del verbo è più semplice da capire dell’impersonale: “Preghiamo i signori viaggiatori di…” sarebbe meglio di “Si pregano i signori viaggiatori di…”.
  • Quando si scelgono le parole, converrebbe pensare al più debole dei nostri interlocutori, non al più forte: una parola più semplice, a parità (magari non perfetta) di significato, “arriverà” con maggiore immediatezza rispetto a una parola complessa. A volta, ci aiuta anche la lunghezza: perché impiegare utilizzo o, ancora peggio, utilizzazione (13 lettere) invece del più breve e asciutto uso (3 lettere)?
  • Quando si superano le 25 parole (circa), la frase diventa più difficile da capire. Possiamo sempre rimediare spezzandola e facendone due frasi consecutive.

Non sempre tutto questo è possibile; ci sono contesti in cui la complessità è necessaria e inevitabile. Penso solo che possiamo tutti, sempre, riflettere un secondo di più su quanto stiamo per dire o scrivere. Tutto questo andrebbe sicuramente a beneficio della qualità della comunicazione. E ognuno di noi, nel suo piccolo, può fare la sua parte.

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