Dal tiktoker alla “TikTok economy”
Da più parti si legge di nuovi circuiti economici e pubblicitari basati sui contenuti prodotti da piccoli e grandi influencer di TikTok: ma cos’è un tiktoker? E come arriva in questo mercato?
Arrivato forse alla fine di un ciclo di anni ruggenti, ormai già da qualche tempo il settore dei social media sembra aver cominciato a fare i conti con una realtà fatta di numeri in contrazione, licenziamenti di massa e penuria di idee.
In giro, presso i media internazionali, si è persino cominciato a parlare di “crisi” dell’industria, se non addirittura di “morte”: lo ha fatto il magazine americano The Atlantic, per esempio, in un articolo icasticamente intitolato “L’era dei social media sta finendo”. Così come le decine di analisi in cui si racconta come quel mondo, oggi, darebbe l’impressione di essere più adatto alla performance e al “fare i soldi”, che a creare connessioni.
Se le big corp digitali paiono affrontare momenti più o meno critici, a sopravvivere sulle pagine dei loro social network sarebbe però un nuovo vasto apparato commerciale e pubblicitario, che proprio sui quei social si basa e che da lì vede nascere i propri protagonisti: quello della cosiddetta creator economy, un comparto di certo non immune dai pericoli di una recessione, ma che secondo Goldman Sachs a oggi varrebbe 250 miliardi di dollari.
Partendo dal rapporto diretto tra un creatore digitale e il proprio pubblico, quello della creator economy è un modello basato sulla produzione di contenuti (video, audio, testuali) “da parte di persone con interessi e passioni diverse” da condividere poi con le proprie nicchie – come si legge su Forbes. Ha saputo evolversi e abbracciare nuove sfide contenutistiche, e sarebbe riuscito poi a godere in buona parte del traino di una piattaforma in ascesa, tra le applicazioni più scaricate e tra i siti più visitati al mondo: TikTok.
È stata addirittura Fortune Magazine, già a fine 2021, a incoronare il social come vero gamechanger dell’industria, con una bellissima copertina dedicata alla creatura di ByteDance, e una serie di approfondimenti incentrati su un messaggio univoco: le regole del gioco, per come le conosciamo, sono destinate a cambiare. Sia nell’industria dell’intrattenimento, che dell’editoria, persino nella pubblicità.
È così che provare a parlare di creator economy – per citare uno degli articoli contenuti nel numero – sta forse diventando, ormai, prendere nota di ciò che succede sul social di proprietà cinese, tra uno scroll e un accordo commerciale. Tra l’inserzione pubblicitaria di un brand, e la clip di un ragazzo di Udine che promuove un nuovo prodotto alla sua fanbase. Un’economia basata – sì – sull’infrastruttura di TikTok, ma anche sulle trovate contenutistiche dei suoi tiktoker.
È per questo che, prima di capire di più quella che potremmo definire TikTok economy, è forse necessario conoscere meglio la definizione di tiktoker – nelle nostre vite, in quelle degli altri e sul mercato. Partendo da una storia.
Nelle scorse settimane, all’interno del Today Show dell’emittente americana NBC, è andato in onda un servizio su una presunta challenge su TikTok: quel tipo di sfide d’abilità lanciate in genere da qualche utente, e che spesso finiscono per esser raccontate — anche con toni allarmistici — dai media mainstream.
In questo caso, ad animare la discussione, sarebbe stato il cosiddetto boat jumping: letteralmente una sfida di salti da barche in movimento che avrebbero portato, stando al racconto del programma, a conseguenze anche gravi.
A riprendere la notizia sono stati alcuni dei principali media americani, fino a comparire persino sulle nostre testate nazionali. Eppure, come riportato dal Washington Post e dal Post in Italia, in realtà questa challenge non sarebbe mai stata effettivamente virale, se non dopo la diffusione dell’allarme dei giornali: un nuovo caso in cui, un giornalismo che conosce poco di TikTok, ma molto bene i propri lettori, avrebbe approfittato “delle paure dei genitori” per creare una news potenzialmente virale e citare la stuzzicante parola tiktoker.
In questo come in altri casi, questa generica figura è stata al centro di articoli e commenti circolati anche nel nostro paese. Si legge spesso di tiktoker che lanciano sfide d’ogni sorta, appunto, o che finiscono per esser citati in cronaca per aver compiuto azioni censurabili – come i due ragazzi che avrebbero chiamato l’ambulanza per farsi dare un passaggio, pubblicando parte dell’accaduto sulla piattaforma di proprietà di ByteDance.
Si parla quindi di “Tiktoker dell’ambulanza”, “Tiktoker americani che si lamentano della costiera amalfitana”, di “cuochi tiktoker” o che risolvono misteri. E molto spesso, si tratta di semplici utenti senza particolari ambizioni contenutistiche e senza un seguito rilevante, a cui viene data una facile etichetta che in realtà è di più complicata attribuzione.
Secondo il Cambridge Dictionary, tiktoker sarebbe chi usa il social network in questione, specie per pubblicare video autoprodotti – “spesso di loro stessi intenti a svolgere delle attività, inclusa la musica”. Il Collins, invece, attribuisce questo ruolo a chi “condivide regolarmente, o appare regolarmente, in video sull’applicazione”.
In entrambi i casi, dunque, la direzione più o meno implicita è quella che afferisce alla frequenza, e quindi a un certo grado di professionalità nella produzione dei contenuti: non basterebbe quindi possedere un profilo, e da questo estrarre una clip potenzialmente notiziabile, per fare di una persona un tiktoker. Sarebbe necessaria una forma di iterazione.
Se è vero, però, che nel linguaggio comune della piattaforma difficilmente si attribuiscono questi gradi a chi si limita a pubblicare con costanza a prescindere dal contenuto – dall’anziano che mostra la proprie cene, alla semplice coppia che riprende il tramonto nei giorni di vacanza – allora resta da capire quando si possa davvero usare il termine, e chi comprenda: per esempio, tiktoker è solo chi supera una certa soglia di “mi piace” o visualizzazioni? E dopo quanti video ci si può vantare di esserlo?
Una chiave di lettura più alta, quasi filosofica, ci viene suggerita dall’algoritmo stesso della piattaforma: un meccanismo che intercetta i gusti di tutti gli iscritti, ripropone loro in special modo quello che potrebbe piacergli, e fa sì che chiunque possa raggiungere la viralità senza neanche volerlo o accorgersene.
In questo senso, la letteratura dedicata a gente diventata celebre solo per aver mostrato la propria vita quotidiana è ampia, e ci invita a seguire una traccia che possa poi portarci a definire credibilmente la TikTok economy: panettieri, salumieri, venditori di pesce ed esperti in pellicole per smartphone, tutti personaggi difficilmente nati come tiktoker in senso stretto, ma arrivati a diventarlo dopo una prima affermazione personale in termini di numeri.
L’esplosione di questa nuova bolla, fatta da gente con ambizioni più o meno serie sul proprio futuro di creatore digitale, e la sua adesione quasi naturale alle forme e agli algoritmi di TikTok, ha poi condotto a due effetti principali che possono aiutarci a fissare dei punti.
Il primo, l’obsolescienza del modello dei cosiddetti influencer: quelle le personalità della rete in grado di orientare le opinioni di una community e di allargare la portata potenziale di un semplice messaggio, seppure portatrici di un’estetica più inaccessibile, alta, fuori portata – al contrario dei creator, “chi, in poche parole, il proprio contenuto se lo produce in casa e prova a farlo diventare la sua specialità” in modo naturale e organico, come appunto scrivevo in “Sei vecchio” (nottetempo, 2023).
Secondo, la nascita di una vera e propria economia parallela dei contenuti: quella, appunto, della TikTok economy.
Con l’obiettivo di lanciare volti che parlino di prodotti e servizi in modo spontaneo e immediato, ad oggi sempre più brand e agenzie vanno alla ricerca di personaggi che siano stati in grado di formare una nicchia, che abbiano superato in qualche modo una soglia critica di like, visualizzazioni e follower, e che abbiano costruito una comunità attorno ai propri contenuti.
È il caso delle centinaia di utenti di successo che promuovono qualcosa – ma con il loro stile. Che si fanno interpreti di un brand, ma con il loro tono di voce e senza alterare la loro produzione: un modello che, secondo un sondaggio dell’Influencer Marketing Hub, porterebbe il 77% dei creator partecipanti all’intervista a definire gli accordi pubblicitari con marchi e intermediari la loro primaria fonte di sostentamento.
Guardare a partnership di questo tipo, peraltro, spesso diventa necessario per tutti quei creatori di contenuti che dalle piattaforme spesso producono ricavi piuttosto esigui – si pensi alla stessa TikTok, accusata di scarse possibilità di monetizzazione malgrado il lancio di un Creator Fund da 200 milioni. È stato poi il marketing, tra i primi, a comprendere che la promozione genuina e spontanea paga più e meglio di un immaginario irraggiungibile, cominciando ad attrarre e a rendere professionisti ragazzi dalle storie e dalle formazioni più diverse.
Utenti che diventano tiktoker, che poi entrano in una economy – appunto.
Messa così, sembrerebbe – però – quasi di dare all’etichetta un’accezione solo commerciale, specie in un contesto in cui la massimizzazione economica dei propri contenuti, magari nati per caso o per scherzo, può essere alla portata di tutti, inaspettata, aleatoria. E dove a credersi creatori digitali – secondo il blog HubSpot – sarebbe peraltro il 30% circa dei 18-24enni, e il 40% dei 25-34enni.
Più facile, forse, è badare a cosa funziona: a chi, tra le centinaia di milioni di profili esistenti, è riuscito a sfondare il muro dell’anonimato e diventare “virale” in termini banalmente quantitativi. Chi forse, a ben vedere, può essere davvero definito tiktoker.