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Arte e Cultura

Il cinema in grande e in piccolo

Roy Menarini
Di Roy Menarini
Roy Menarini è critico cinematografico e docente universitario. Insegna Cinema e Industria Culturale all’Università di Bologna. Collabora con la Cineteca di Bologna e vari festival italiani. Ha scritto numerosi volumi sul cinema contemporaneo e sui generi cinematografici, oltre che monografie su James Cameron, Stanley Kubrick, David Lynch, Nanni Moretti. Dirige la rivista accademica Cinergie e il blog Cinefilia Ritrovata. Scrive su Film Tv e MyMovies.
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Pubblicato il 21.04.2021 alle 9:17

Se parlate con un appassionato di cinema, vi dirà che durante la pandemia la cosa che gli è mancata di più è stata il grande schermo. I film non hanno mai smesso di essere presenti nelle nostre case – in televisione, su piattaforma, in DVD, su Internet, ecc. – ma i cinefili hanno sofferto l’assenza del rito collettivo della sala cinematografica.

Si tratta solamente di questioni tecniche? In verità c’è molto di più. Certo uno schermo davvero grande, una poltrona comoda, una proiezione luminosa, un sistema stereo in grado di avvolgerci da tutti i lati sono benefit che solo andando in una sala professionale possiamo ottenere. Ma in un’epoca dove i televisori e gli home theatre sono ormai moneta corrente, e ciascuno può crearsi una piccola saletta audiovideo a casa propria con schermo in 4k e abbonamenti a tutti i canali, la differenza tra starsene in salotto e andare al cinema fuori si attenua.

Quindi no, la questione tecnica non è sufficiente a spiegare la passione che ancora una certa parte del pubblico mantiene per il grande schermo. Le ragioni vanne ricercate nella dimensione psicologica, culturale e sociale dell’esperienza cinematografica.

Cominciamo da quella psicologica. Molti studi hanno dimostrato che l’immersione nel buio, la grandezza dello schermo e la compresenza con altri spettatori conducono chi guarda a uno stato di assorbimento e sospensione che non sono paragonabili all’esperienza casalinga. Non ci sono interruzioni, non ci sono chiamate al cellulare, non ci sono rumori dal piano di sopra, non c’è insomma quella fruizione distratta che spesso inevitabilmente mettiamo in atto a casa nostra. L’intensità della visione è indubbiamente superiore, e la presenza di tante (o anche solo poche) persone che insieme a noi ridono, piangono, o persino rumoreggiano, innalzano la proiezione a una sorta di rito collettivo, con le sue regole e le sue specificità.

La seconda, la dimensione culturale, è presto detta. Andare al cinema significa mettere in atto forme di consumo artistico, scegliere un certo tipo di film può significare evasione o impegno ma in entrambi i casi mostra desiderio di narrazione e di esperienza estetica: il più delle volte la visione di un film (anche quando abbiamo la sfortuna di incontrarne uno deludente) attiva il pensiero e la voglia di approfondire.

Infine la dimensione sociale, forse la più importante. A parte qualche cinefilo solitario, alla maggior parte delle persone piace andare al cinema in compagnia. Non si tratta solamente di vedere un film insieme a qualcun altro, ma di incontrarsi, chiacchierare a luce accese, sussurrarsi impressioni durante la proiezione, uscire e discutere (magari animatamente) del film appena visto, magari aggiungere una pizza, un cocktail o solamente una passeggiata. Tutte cose che aiutano le relazioni, stimolano il confronto, creano benessere fisico e mentale, fungono da stimolo alla socialità.

Ovviamente non sempre è tutto perfetto al cinema. Ci si può annoiare, addormentare, esasperare. Possiamo litigare con altri spettatori o essere irritati dall’odore di popcorn. Rischiamo di vedere brutti film o di assistere a immagini sfocate. Ma ce n’è abbastanza per amare la liturgia del grande schermo e degli spettatori amanti dei film in sala: ci si riconosce al primo sguardo.

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