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Immagine principale di: Il cuore nero di Bridgerton
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Arte e Cultura

Il cuore nero di Bridgerton

Simona Spaventa
Di Simona Spaventa
Piemontese, dopo la laurea in lettere moderne e un master in filologia romanza a Friburgo, ha frequentato l’Ifg di Milano ed è diventata giornalista professionista. Oggi è freelance e critico teatrale. Dal 2001 collabora stabilmente con le pagine milanesi e nazionali del quotidiano LaRepubblica per il teatro e il cinema. Tra le sue altre collaborazioni quella con il manifesto e, in passato, con il mensile di Emergency E. La sua passione, oltre al cinema e al teatro, sono i gatti e i viaggi in Oriente.
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Pubblicato il 03.03.2021 alle 9:00

Possono le rivendicazioni di uguaglianza razziale del movimento “black lives matter” immergersi nella corte reale inglese del 1813? E possono farlo con i toni rosa di una saga sentimentale? Succede con Bridgerton, la serie Netflix campione d’ascolti che ha innescato dibattiti senza fine, oltre che per le scene erotiche disinvolte, soprattutto per la sfida manifesta, e a netta carica politica, alla verosimiglianza storica. Nella Londra della Regency Era, a palazzo troviamo una regina di colore e ai balli, nelle sale sontuose perfettamente ricostruite, aristocratici neri danzano, spettegolano e flirtano con i loro pari anglosassoni.

Com’è possibile? Il cinema a volte esige, si sa, la sospensione dell’incredulità, ma qui lo spettatore resta a bocca aperta e anche se tra debuttanti da maritare e scandali amorosi la storia – tratta dalla saga di romanzi bestseller della newyorchese Julia Quinn – mantiene un passo volutamente leggero, nella testa di chi guarda l’esibito race blending, il miscuglio di razze, fa scattare inevitabile un click che riporta all’oggi. Merito della produttrice, la leggendaria Shonda Rhimes, creatrice di successi come Grey’s Anatomy e Scandal, e nota per la sua battaglia contro le discriminazioni.

Afroamericana, 46 anni, è stata una pioniera nell’affidare ruoli da protagonista a donne di colore. Al debutto su Netflix con la sua casa di produzione Shondaland, mescola ancor di più le carte, e osa l’inosabile: parlare di temi forti dell’attualità in una serie in costume. Sotto una superficie di frivolezza, diritti dei neri, libertà sessuale e femminismo scorrono sotto traccia nella trama e muovono i personaggi. E c’è anche una strizzata d’occhio alle fake news, perché a far procedere tanti nodi della storia è il bollettino di pettegolezzi di corte di Lady Whistledown, editorialista gossip la cui identità resta segreta (almeno fino all’ultimo fotogramma della prima stagione). Un elemento che ha un fondamento storico, dato che in quegli anni già giravano i primi fogli scandalistici.

Come è fondato, almeno secondo alcuni storici, il fatto che la regina Carlotta, moglie di Giorgio III, fosse mulatta. Descritta come “brutta” in parecchie cronache del tempo, secondo lo storico originario del Belize Mario De Valdes y Cocom che la studiò negli anni ’60 discenderebbe da un ramo africano della famiglia reale portoghese. Fatto attestato anche da alcuni ritratti, in particolare quello dipinto attorno al 1763 da Allan Ramsay, che ha incuriosito e stimolato il creatore e produttore esecutivo della serie, Chris Van Dusen. Di certo, l’interpretazione che la guyanese Golda Rosheuvel dà della sovrana è notevole.

E proprio al fascino e alla scelta azzeccata degli attori Bridgerton deve buona parte del suo successo. Occhi da cerbiatta alla Ally McBeal e aria da ragazzina, l’inglese Phoebe Dynevor è Daphne Bridgerton, maggiore tra le figlie femmine della numerosa famiglia aristocratica londinese che dà il titolo alla serie. In età da marito, si innamorerà del bel Duca di Hastings. Che, guarda caso, è di colore: il suo attore, Regé-Jean Page, metà britannico e metà dello Zimbwawe, è subito assurto a sex symbol planetario e rumors dicono che sarà il prossimo James Bond. Vedremo. Ma intanto è di pochi giorni fa la conferma che la seconda stagione si farà. Uscita prevista, la primavera del 2022.

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