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Arte e Cultura

5 libri perfetti per riscoprire il piacere della solitudine

Paolo Armelli
Di Paolo Armelli
Nato nel 1988, dopo una laurea Lettere Moderne con una specializzazione in traduzione letteraria, Paolo Armelli si dedica alla comunicazione occupandosi di content marketing e social media management. Nel frattempo scrive per alcune testate online e offline come Vogue, Wired.it, Rivista Studio, Gazzetta.it, Link. Si occupa principalmente di editoria, letteratura, televisione, cultura pop e tendenze. Pensa che le parole siano importanti e che usarle bene sia un segno di rispetto per l’altro, per questo studia come la lingua evolve per adattarsi alla diversità, all’inclusività e all’integrazione. Per un paio di anni ha diretto una rivista online di soli autori [...]
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Pubblicato il 04.10.2018 alle 18:08

Viviamo in un mondo talmente sovraesposto, talmente onnipresente, talmente condiviso che a volte ci è quasi impensabile immaginarci senza gli altri. Senza lo sguardo degli altri che ci osservano attraverso i social, senza i commenti degli altri che ci convalidano o criticano, senza la presenza degli altri che ci accompagna – nella realtà e nella virtualità – in ogni luogo. Sembra quasi che la solitudine sia diventata una dimensione del tutto estranea al vivere contemporaneo e digitale, perfino una prospettiva tragica da rifuggire con gravità e terrore.
Ma, come diceva la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, “on ne trouve pas la solitude, on la fait”: non ci si ritrova da soli per caso, anzi è una cosa che si costruisce con impegno. Appunto una dimensione solitaria può essere oggigiorno più utile che mai, da cercare con impegno e dedizione: per rompere l’entropia del rumore di fondo, per ristabilire delle priorità e dei ritmi nella frenesia del costantemente nuovo che ci circonda, per soffermarci a ritrovare dettagli del mondo che spesso ci sfuggono. E quale attività più solitaria e riflessiva della lettura? Ecco alcuni romanzi più o meno classici per riscoprire questo strumento di equilibrio essenziale.

  1. Henry David Thoreau, Walden ovvero Vita nei boschi

“Volevo vivere la vita profondamente, succhiarne tutto il midollo, volevo vivere da gagliardo spartano, per sbaragliare ciò che vita non era, falciare ampio e raso terra e riporre la vita lì, in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici”: non si può parlare di solitudine in letteratura senza prescindere da questo che è uno dei capolavori della letteratura americana dell’Ottocento. Prima di pubblicarlo nel 1854, Thoreau (uno dei massimi esponenti di quella corrente chiamata trascendentalismo) ha passato due anni, due mesi e due giorni abitando in solitaria in una casetta di legno immersa nei boschi del Massachusetts. Il risultato è una personalissima dichiarazione di indipendenza e scoperta del proprio sé spirituale ma anche uno sguardo rinnovato sulle dinamiche sociali, soprattutto grazie a un’osservazione spassionata e suggestiva della potenza della natura. Riflettendo sui difetti fondamentali della socialità, l’autore ne riscopre il valore di base, che si può però apprezzare solo prendendosi anche la giusta distanza.

  1. Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche

Dai boschi secolari degli Stati Uniti alle glaciali città della Russia: qualche anno prima di Walden, Dostoevskji aveva scritto questo romanzo breve su quattro notti passate dal suo narratore senza nome a girovagare per le strade di San Pietroburgo, appunto durante le cosiddette notti bianche, nel periodo dell’anno in cui il sole tramonta tardissimo. Passeggiando, il protagonista, abituato a rifuggire il giorno, ormai pieno di persone lui non familiari, e a preferire la solitudine della sua casa, incontra una giovane donna che piange, Nastenka. L’incontro fortuito diventa una reciproca confessione che avviene per tre notti consecutive, finché lo spasimante a lungo perduto della ragazza ritorna. Lì la voce narrante, assaporando comunque quei momenti di condivisione, torna a ribadire l’ineluttabilità della solitudine, che assume però, nello sfondo luminoso dei tramonti pietroburghesi, una patina esistenziale irresistibile.

  1. Emily Dickinson, Poesie

Fu solo nel 1886, dopo la sua morte, che furono scoperte le più di mille poesie che Emily Dickinson aveva composto durante la sua vita. E non c’è esempio più fulgido di esaltazione della solitudine se non quello di questa poetessa che passò la maggior parte della sua esistenza matura chiusa in casa, con pochissime relazioni all’esterno per non parlare di sparuti viaggi. E di amori epistolari, platonici. Tuttavia in questa reclusione autoimposta (“Si può essere più soli / Senza la Solitudine / Sono così abituata al mio Destino”), vissuta vestendosi sempre di bianco in celebrazione di una purezza ribadita, Dickinson ebbe modo di esaltare la vita come pochi altri: il piacere delle piccole cose, l’intensità della natura, l’utilità dello scrutarsi dentro.

  1. Paola Mastrocola, L’esercito delle cose inutili 

Uscito da Einaudi nel 2015, questo libro è qualcosa di davvero bizzarro: da asini che si sentono esodati a libri parlanti, fino a bambini che scrivono lettere a destinatari che non sanno leggere (sempre l’asino di cui sopra), ci troviamo in romanzo-favola che riflette su ciò che restituisce senso alla vita e sui tentativi inesauribili di colmare una distanza fra noi e gli altri. Non è sempre semplice superare la solitudine che ci costruiamo attorno come un salvagente: “Forse è questa la solitudine: una specie di barca. Ognuno ha il suo guscio, la sua vela, e va per il mondo così, accoccolato dentro se stesso. Per questo siamo un po’ lontani l’uno dall’altro, perché se le barche si scontrano magari si rompono”. Ma la fantasia e la fiducia in questo caso possono essere strumenti di ricucitura utilissimi.

  1. Gail Honeyman, Eleanor Oliphant sta benissimo

Pubblicato lo scorso maggio da Garzanti, questo romanzo ha avuto parecchia eco durante l’estate affermandosi come uno dei casi letterari di questa nuova tendenza letteraria edificante chiamata up-lit. La protagonista del titolo è una trentenne decisamente solitaria, che non dà confidenza a nessuno, che si divide fra le sue parole crociate e le sue piante, che atterrisce perfino al pensiero dell’unica telefonata settimanale della madre. Di certo l’evasività sociale di Eleanor, che si esprime sempre in toni forbiti ma che fa fatica a comprendere le convenzioni più basilari della convivenza sociale, è una specie di corazza che si è costruita in risposta alle avversità della vita. Eppure la sua solitudine non è il demone oscuro che gli altri pensano. Per lei è una fase necessaria prima di aprirsi ai piccoli gesti di generosità e connessione che la vita può offrire. Perché bisogna essere stati soli per capire quanto importante sia stare insieme.

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