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Arte e Cultura

Meglio il film o il libro? 3 cose da sapere prima di decidere

Roy Menarini
Di Roy Menarini
Roy Menarini è critico cinematografico e docente universitario. Insegna Cinema e Industria Culturale all’Università di Bologna. Collabora con la Cineteca di Bologna e vari festival italiani. Ha scritto numerosi volumi sul cinema contemporaneo e sui generi cinematografici, oltre che monografie su James Cameron, Stanley Kubrick, David Lynch, Nanni Moretti. Dirige la rivista accademica Cinergie e il blog Cinefilia Ritrovata. Scrive su Film Tv e MyMovies.
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Pubblicato il 14.10.2022 alle 15:20

Era meglio il romanzo

Quante volte abbiamo sentito dire questa frase? È del tutto normale che quando leggiamo un romanzo ci immaginiamo un mondo arredato secondo le nostre preferenze e secondo la nostra fantasia, e soprattutto che diamo un volto e un corpo ai personaggi. E che veniamo delusi dal non trovare corrispondenza tra lo schermo e i nostri ricordi. Non è un caso che, fin dall’annuncio di qualche trasposizione cinematografica di testi celebri, si scatenino le proteste dei lettori per la scelta degli attori. È quasi impossibile accontentare tutti, persino a partire dalla scelta dell’ambientazione e delle facce. Per non parlare poi delle inevitabili sintesi narrative che il film è costretto il più delle volte a operare, per racchiudere in un paio d’ore opere spesso ben superiori alle 200 pagine.

Tuttavia, anche se non è raro che il pubblico si dimostri conservatore e poco felice delle scelte dei realizzatori, finisce col riempire le sale per la curiosità di vedere su grande schermo i testi amati. Ecco perché il rapporto tra queste due grandi industrie culturali – letteratura (ovvero editoria) e cinema – è straordinariamente saldo da oltre un secolo: il circuito di sfruttamento commerciale premia entrambe, visto che il film permette al libro di ottenere una seconda vita, talvolta di essere ristampato con la copertina tratta dalle immagini del lungometraggio, tanto quanto il comparto cinematografico può contare sulla notorietà del romanzo e attrarre quindi spettatori di ogni tipo, dagli appassionati cinefili ai lettori curiosi. 

Classici e contemporanei

Non c’è alcun romanzo che non possa essere trasformato in film. È una regola aurea dell’industria. Può capitare che lo scrittore partecipi alla stesura della sceneggiatura, per esercitare un controllo sulla propria creatura artistica (pensiamo a Nabokov per Lolita di Stanley Kubrick, forse uno dei risultati più alti di questa storia comparata), oppure che non voglia avere nulla a che fare con quello che poi ne uscirà, per poi potersi magari dichiarare insoddisfatto (ancora un film di Kubrick, Shining, poco amato da Stephen King). Ovviamente i classici della civiltà letteraria possono essere rivoluzionati a piacere: quanti adattamenti disinvolti di Shakespeare, di riletture in abiti moderni di Sherlock Holmes, di Dracula in giro per le metropoli di oggi abbiamo ormai visto? Nulla ci stupisce più. Tuttavia è paradossale notare come, nel caso dei romanzi più recenti, il livello di attenzione si alzi e si possa giocare di meno con le attese dei lettori: come a dire che con i classici ormai riconosciuti è permesso reinventare l’universo di riferimento (come faceva Pasolini decontestualizzando Medea o Edipo Re), mentre con i nuovi si rischia di irritare autori e spettatori. Quando escono le traduzioni cinematografiche dei romanzi premiati con lo Strega – per esempio Il colibrì di Francesca Archibugi tratto da Sandro Veronesi o Le otto montagne di Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch tratto da Paolo Cognetti – gli occhi sono tutti puntati su quanto il film riesce a conservare lo spirito di contemporaneità e vicinanza al quotidiano che abbiamo percepito tra le righe. 

Dalla scrittura alla scrittura

Non dimentichiamo che il processo di adattamento di un romanzo passa comunque attraverso un atto di scrittura: la sceneggiatura, che secondo Pasolini è una struttura narrativa che anela a un suo valore letterario ma non lo possiede, funge da ponte tra la parola e l’immagine. È lì che gli autori devono operare tagli, decidere che cosa sacrificare e che cosa estendere, in buona sostanza cercare di catturare il senso del testo più che seguirlo pedissequamente. Uno dei rapporti più liberi con la letteratura è quello di François Truffaut, che in Jules e Jim “tradì” in lungo e in largo il romanzo di origine scritto da Henri Roché che però benedisse l’atteggiamento irriverente del regista, cui mandò lettere affettuose (che finirono anch’esse nella sceneggiatura!). Ma anche Farenheit 451 (da Ray Bradbury) e La camera verde (da Henry James) ammettono lo stesso grado di personalità e rivendicazione del potere del cinema di realizzare opere autonome, non vincolate per forza alla fedeltà alla lettera. E forse è questo il maggior insegnamento che possiamo trarre: che si tratti di Tolkien, Austen, Dickens, Hugo, Dostoevskij o Flaubert, si tratta sempre e comunque di opere di fantasia e d’ingegno. Irrigidirsi sulla norma – magari protestando per il cambio di colore di pelle di qualche personaggio – non ha molto senso, perché fin dal primo ciak un film non potrà mai essere in alcun modo un libro illustrato.  

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