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Arte e Cultura

Riccardino di Andrea Camilleri e l’importanza di ripercorrere la propria vita

Corinne Corci
Di Corinne Corci
Nata a Milano, è una giornalista praticante. Dopo essersi laureata in Lettere moderne e aver lavorato come correttrice di bozze per Mondadori, ha frequentato la scuola di giornalismo IULM. Collabora con alcune testate tra cui D la Repubblica, Icon e Rivista Studio.
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Pubblicato il 28.08.2020 alle 7:48

Andrea Camilleri ha sempre amato raccontare storie in pubblico, ad alta voce. Nelle sue numerose apparizioni pubbliche ha più volte sottolineato che gli sarebbe piaciuto fare il cantastorie, vedere l’effetto che faceva sulla gente e poi passare con il cappello in mano a raccogliere i frutti delle emozioni che aveva distribuito. Camilleri era consapevole da uomo di teatro del risultato immediato che provocavano certe messe in scena, e forse è proprio per questo che quando si è trovato a scrivere l’ultimo romanzo della saga dedicata al commissario Montalbano ha deciso di condividerlo un po’ per volta con i suoi lettori.

Già nel 2005 annunciò di avere consegnato a Sellerio quella che sarebbe stata l’ultima avventura del suo personaggio. Ora che Riccardino è stato pubblicato da Sellerio finalmente si può affermare che l’autore siciliano è riuscito a portare a termine felicemente la sua impresa. Quello che conta di più in questa storia non è tanto il delitto di cui si deve occupare Salvo Montalbano, l’ultimo, la morte del direttore della filiale della Banca Regionale di Vigata in Sicilia, bensì il suo rapporto diretto con il suo creatore e quello con il suo alter ego televisivo. Come se fosse la versione di Vigata di Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Montalbano si sente vecchio e discute direttamente con Camilleri. Quest’ultimo gli suggerisce di non prestare orecchio all’opinione della gente: un metaromanzo in cui i ruoli del narratore e dei suoi protagonisti si possono ribaltare.

Camilleri ai posteri non ha lasciato soltanto casi da districare, fantasiose matasse da sbrogliare, ma ha regalato una nuova lingua, un idioma inventato per una dimensione letteraria ma finito ben presto per permeare il vocabolario comune, sdoganando universalmente dei termini una volta relegati al dialetto.

Ma Riccardino non è come gli altri romanzi della serie. E accanto ai motivi di continuità col passato scorrono, in alcuni casi paralleli alla narrazione, in altri intrecciandosi, segnali diversi. “Montalbano è!”, si legge tra le prime pagine. “Cu? Montalbanu? Chiddru di la tilevisioni?”. A parlare sono alcune persone accalcate sul luogo del delitto. “No, chiddro veru”, risponde un altro.

È il preludio al tema più originale del romanzo: il confronto tra Attore, Personaggio e Autore, nella miglior tradizione pirandelliana, appunto. Camilleri fa i conti con la sua opera, e quindi con sé stesso, come un uomo qualunque arrivato al punto d’approdo.

Camilleri e il commissario. Anime stanche, che hanno vissuto un’intera vita a dialogare con il mondo. Su entrambi nel romanzo pende come una spada di Damocle l’ombra della vecchiaia. Quando iniziò Riccardino, Camilleri stava per compiere ottant’anni e temeva che non sarebbe riuscito a scrivere la parola fine alla sua serie di romanzi. Ma anche Montalbano non se la passava meglio, turbato dal soverchiante confronto con il suo omologo televisivo, più giovane, più bravo e più preparato di lui. Forse sta proprio qui il senso di Riccardino, riuscire a decongestionare, rielaborare la propria vita negli anni. Concedersi il tempo per riflettere su tutto ciò che siamo riusciti a fare.

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