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Arte e Cultura

Toro scatenato e il cinema che non finisce mai

Roy Menarini
Di Roy Menarini
Roy Menarini è critico cinematografico e docente universitario. Insegna Cinema e Industria Culturale all’Università di Bologna. Collabora con la Cineteca di Bologna e vari festival italiani. Ha scritto numerosi volumi sul cinema contemporaneo e sui generi cinematografici, oltre che monografie su James Cameron, Stanley Kubrick, David Lynch, Nanni Moretti. Dirige la rivista accademica Cinergie e il blog Cinefilia Ritrovata. Scrive su Film Tv e MyMovies.
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Pubblicato il 08.05.2023 alle 12:47

Con Toro scatenato, nuovamente nelle sale italiane dall’8 al 10 maggio, scopriamo ancora una volta un classico in grado di parlare agli spettatori di oggi e un cult movie dove tutto è indimenticabile: dagli incontri di boxe alla performance estrema di Robert De Niro. Lo stile della regia fa la differenza rispetto agli altri film sportivi.

Un nome diventato leggenda

Cominciamo dal titolo. Ecco qualcosa di longevo. L’espressione “toro scatenato” non invecchia, così come non sono invecchiate (e tuttora vengono utilizzate dal giornalismo) altre formule iconiche, da “arancia meccanica” a “lolita” (merito di Stanley Kubrick), da “viale del tramonto” a “la dolce vita”, talvolta così abusati da essersi quasi dimenticati da che film originariamente provengano. L’originale Raging Bull viene per una volta rispettato, e restituisce l’idea della furia animalesca che travolge il protagonista (il pugile Jake La Motta, realmente esistito) sia sul ring sia nella vita reale – dove le difficoltà sembrano essere persino più dolorose di quando si prendono pugni da un nemico in guantoni. L’enorme successo di Toro scatenato – che annunciava gli anni Ottanta da parte di un regista poco interessato alle nuove mode – fu il risultato di tanti fattori: l’incredibile performance di Robert De Niro, che giunse a ingrassare volontariamente 30 kg pur di donare realismo alla trasformazione fisica dell’ex-atleta; la scelta di girare in bianco e nero, rendendo più artistico e possente il violento ritratto di un uomo fallibile; il fascino per la boxe che, pur essendo uno sport che cominciava già allora il proprio inarrestabile declino, celebrava in quel momento un felice matrimonio col grande schermo grazie alla saga di Rocky Balboa, cominciata nel 1976 (e proseguita fino ai nostri giorni con lo spin off dedicato a Creed). 

Tutto questo ha convinto i distributori a riportare in sala Toro scatenato, ennesima operazione che dimostra come il cinema del passato costituisca – almeno nelle sue punte d’eccellenza – uno scrigno amatissimo dal pubblico di oggi. 

Storie di vita

In verità, Toro scatenato è solo parzialmente un racconto sul pugilato. C’è molto di autobiografico nella pellicola di Martin Scorsese. Il maestro italo-americano (in procinto ora di sbarcare a Cannes con il suo ultimo “affresco” cinematografico di quasi 4 ore, nuovamente in compagnia di Robert De Niro e con Leonardo DiCaprio) si trovava infatti avvinto in una spirale autodistruttiva, tra droga e alcool – forse a causa di un paio di insuccessi negli anni precedenti. Dopo molte riscritture, la sceneggiatura fu presa in mano dallo stesso De Niro che, amico del regista da tanti anni e a lui legato dal cult Taxi Driver, lo convinse a disintossicarsi e a ricostruire da capo la storia, spalla a spalla, a quattro mani. Ed è evidente, specie rivisto oggi, quanto il Jake La Motta narrato dal film in fondo sia lo specchio distorto della vita dell’autore, all’epoca decisamente turbolenta, e quanto racconti dei suoi demoni interiori. 

Realismo e iper-realismo

Ma la vera forza del film risiede nello stile. La potenza del bianco e nero va ben oltre la dotta citazione del cinema che fu. Il sangue nero che cola sul ring fa decisamente più impressione che se fosse colorato di rosso, i vorticosi movimenti di macchina sembrano cozzare contro i toni grigi in una contraddizione artisticamente impressionante, le esplosioni di follia di Jake/De Niro vengono incorniciate dalla forma classica e scolpite nella memoria. E le scene di boxe seguono lo stesso cammino che porta dall’apparente realismo a un iper-realismo visionario e implacabile. Vale la pena farselo spiegare dallo stesso Scorsese: “Per le sequenze dei combattimenti io e Michael Chapman, l’operatore, trovavamo ogni giorno enormi difficoltà per sistemare fisicamente le macchine in modo da ottenere le inquadrature che volevamo. Inoltre dovevamo fare attenzione al fisico di Robert De Niro, per quanto riguardava la durata giornaliera delle riprese, ma devo dire che sul ring aveva un’energia straordinaria. Le riprese delle sequenze di combattimento equivalevano a quelle di dieci film messi insieme!”. 

Ben lungi dal mimare il linguaggio televisivo, il pugilato secondo Scorsese è un fatto emotivo, eccessivo, da raccontare con le armi della letteratura per immagini più che con quelle della diretta televisiva. È così che nasce un capolavoro. 

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