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Empowerment

I social svelano le proprie posizioni ideologiche: ecco come gestire il dissenso

Antonio Belloni
Di Antonio Belloni
Antonio Belloni è nato nel 1979. Vive e lavora a Milano, dove si occupa di strategie di comunicazione e marketing. Scrive di impresa e Made in Italy su diverse testate nazionali. Nel 2012 ha pubblicato Esportare l’Italia. Virtù o necessità? per Guerini e Associati Editori e nel 2014 Food Economy, l’Italia e le strade infinite del cibo tra società e consumi per Marsilio Editori.
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Pubblicato il 20.12.2018 alle 14:12

I social network sono un’esca per il pensiero comune. Accettiamo che chiunque vi riversi la propria idea sui temi caldi del momento. Ma siamo a nostro agio quando a dichiarare la propria posizione ideologica è la nostra azienda, il collaboratore, il brand preferito, o il capo?
Prendere posizione
Negli Stati Uniti è stata pubblicata una ricerca sull’attivismo dei Ceo. E l’interesse è partito dal fatto che il numero di Ceo che prende posizioni ideologiche è crescente. Anche in Italia i casi delle “magliette rosse”, di “Rolling Stone” ed altri, hanno tolto il velo alle idee di molte persone con interessi importanti e ruoli pubblici.
È quindi il momento di chiedersi cosa succede quando l’AD di un’azienda si esprime pubblicamente su tematiche divisive come:
–        l’ambiente o l’alimentazione (l’inquinamento, il consumo di carne animale);
–        la politica (#Trump, ma anche #Salvini o #Brexit);
–        le tematiche sociali o sessuali (#immigrazione, #metoo, #LGBT).
È giusto che il Ceo si esprima su “argomenti sensibili”? E com’è possibile gestire il rapporto professionale con chi abbiamo scoperto avere idee dichiaratamente diverse dalle nostre?
L’attivismo ideologico del Ceo
Si potrebbe subito dire che il Ceo è libero di esprimere la propria idea, ma la realtà dimostra che prima della libertà di espressione, possono esserci gli interessi di-o-per:
–        l’azienda;
–        migliaia di dipendenti;
–        milioni di consumatori.
Come il Novecento ha avuto grandi fabbriche che hanno convissuto con regimi totalitari, anche oggi il Ceo può decidere, per la ragion di Stato aziendale, di “non parlare”, o convivere con idee che non approva.
Invece può anche schierarsi in maniera netta. Per esempio, il capo di Disney ha cancellato un programma di successo della ABC TV per un commento razzista su Twitter di una conduttrice. E poco prima aveva appoggiato Ken Frazier, Ceo dell’azienda farmaceutica Merck, dimessosi dal business advisory council del Presidente Trump perché lo stesso Trump si rifiutò di condannare atti di violenza razziale accaduti a Charlottesville.
Davanti a un’audience, o meglio un “mercato” di migliaia di clienti, inserzionisti, dipendenti e attori, cos’altro avrebbe potuto fare il Ceo di Disney?
La posizione dell’azienda
È chiaro che lo svelamento di una posizione politica di un Ceo o un imprenditore provochi una reazione nei suoi dipendenti. Ma non ci sono solo i dipendenti a provare un possibile dissenso. Cosa succede al processo di acquisto dei consumatori, quando è un brand a loro molto caro, a schierarsi ideologicamente?
Ad aprile Starbucks ha annunciato la chiusura il 29 maggio di 8.000 store per rispondere pubblicamente all’atteggiamento di un dipendente che ha chiamato la polizia perché due uomini di colore avrebbero voluto utilizzare la toilette senza consumare, e sono stati arrestati. Ma non ci sono solo casi di attivismo per i diritti civili. Il famoso gruppo di co-working WeWork ha smesso di servire carne agli eventi aziendali, né rimborserà pranzi a base di carne, e ha motivato la scelta con ragioni ambientali.
Se un’azienda si esprime contro il razzismo, temi ambientali, o se dichiara di non voler realizzare spot con una famiglia omosessuale, e per farlo usa la radio o la bacheca di un social network, la differenza non c’è.
Il dissenso ideologico al lavoro 
L’azienda o il Ceo sanno di parlare al mondo, mentre un collaboratore, un fornitore, un cliente non affida la propria idea a un social network pensando di parlare al “suo mercato”. Eppure grazie al suo attivismo sui social possiamo scoprire che ha idee differenti dalle nostre. E come gestiamo il dissenso con lui, la prossima volta che lo incrociamo alla macchinetta del caffè o in riunione?
Per ora un metodo non c’è. Anche se con spontaneo buonsenso risponderemmo: se le posizioni sono corrette, che male c’è a difendere una buona causa? Davanti a casi così evidenti ci pare infatti impossibile avere una scelta: dobbiamo schierarci subito.
Eppure è certo che arriverà sul luogo di lavoro qualche problema in più; soprattutto con l’ottimo capo, il dipendente in gamba e il cliente affezionato, perché con gli altri avremmo solo un’ennesima scusa per giustificare una relazione che già non funziona.
A meno che vogliamo affidarci ai cartelli appesi nelle botteghe e negli uffici pubblici italiani durante il ventennio: “Qui non si parla di politica o di alta strategia, qui si lavora”.
Ma tornare indietro parrebbe davvero stupido. Vale la pena cercare una soluzione.

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