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Empowerment

Diversamente abilissimi: storie di successo con una marcia in più

Giulia Blasi
Di Giulia Blasi
Giulia Blasi è scrittrice, autrice e conduttrice radiofonica. Fa parte della redazione del periodico digitale di Treccani, Il Tascabile, e ha all’attivo una lunga esperienza come content e community manager nella rete italiana. Il suo ultimo romanzo si intitola Se basta un fiore (Piemme, 2017).
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Pubblicato il 19.01.2018 alle 13:45

Il problema forse è la parola, “disabile”, che implica la mancanza di abilità, di capacità. Quando forse è davvero più precisa la locuzione “diversamente abile”: sempre abile, sì, con limiti che in qualche caso diventano una forza.
Prendiamo il caso più famoso di tutti: Helen Keller, sordocieca fin dalla più tenera età. Nata alla fine dell’800 nell’Alabama, sarebbe forse rimasta nelle tenebre e nel silenzio tutta la vita, se la sua famiglia – ricca, bene inserita – non fosse stata in contatto con Alexander Graham Bell (per chi non lo sapesse: il primo a brevettare il telefono), o non avesse potuto pagare un’istitutrice a tempo pieno, Annie Sullivan. Sullivan – anche lei ipovedente; anche lei, a suo modo, una supereroina – insegnò a Helen la comunicazione tramite un alfabeto speciale, fatto di segni con le dita nel palmo della mano. Nella sua autobiografia, Helen racconta di aver compreso il concetto di “parola” toccando l’acqua, e riconoscendo in quella sensazione il vocabolo appreso prima di perdere vista e udito. Quel “wa-wa” riemerso dalle nebbie della memoria l’avrebbe portata poi a iscriversi alla Radcliffe, a entrare in contatto con alcuni dei più importanti intellettuali dell’epoca, e infine a fondare la ACLU, l’American Civil Liberties Union, e a diventare un’attivista per i diritti dei disabili. O diversamente abili, fate voi.

“Mamma non sapeva come crescere una bambina senza braccia, ma ha scelto di mostrare chi sono”: sono le parole di Simona Atzori, protagonista dell’evento che Centodieci organizza a Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018

Helen Keller aveva le mani, Christy Brown un piede, uno solo, il sinistro: affetto da paralisi cerebrale, Christy non aveva alcun controllo sul suo corpo, a parte quell’unico arto: con quello imparò a scrivere e a dipingere, e diventò un romanziere e un artista di fama. Sulla sua storia, come su quella di Helen, è stato fatto un film. Entrambi – Anna dei miracoli e Il mio piede sinistro – sono da vedere e rivedere, non solo per motivarsi, ma anche perché contengono alcune fra le migliori prove d’attori di sempre.
Vi ricordate Alex Zanardi quando correva in Formula 1? Era simpatico, anche quando perdeva, e perdeva spesso. Poi l’inattività, il ritorno in Formula CART, l’incidente, le gambe tranciate, la riabilitazione. “Solo cose belle”, dice lui in un’intervista: un incidente che è una rinascita. Alex torna alla corsa, vince, poi si dà alla handbike, stravince, fa il conduttore televisivo, e in tutto questo la sua simpatia, il suo calore umano e la sua positività aumentano, strabordano, ne fanno una figura che è impossibile non amare e non ammirare. Ogni mattina, Alex Zanardi si sveglia e dà una sberla sul coppino ai nostri “Non ce la faccio” miagolati davanti a difficoltà secondarie.
A proposito di difficoltà insormontabili che non lo erano, sapete tutti la storia di Maria Callas che era così miope – in anni in cui le lenti a contatto non esistevano – che sul palco non vedeva mai dov’era, eppure era in grado di tenere la scena con una forza e una presenza che sono rimaste leggendarie. Le somiglia parecchio (e speriamo non gli dispiaccia il paragone) Filippo Timi, che ha una grave malattia agli occhi ed è balbuziente. Due caratteristiche che dovrebbero squalificare chiunque dall’arte del palcoscenico, e invece no: è uno dei più bravi e versatili fra gli attori italiani.

Centodieci è Ispirazione presenta lo spettacolo di Simona Atzori “Una stanza viola” per Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018: scopri i dettagli

E per finire in bellezza, una storia in cui la diversità neuronale è una vera ricchezza per il mondo. Temple Grandin è Professoressa Associata di Scienze Animali all’Università del Colorado; è anche autistica, una diagnosi che durante la sua infanzia non era disponibile e che è arrivata solo quando lei aveva già superato la quarantina. Nell’America degli anni ‘50 e ‘60, una bambina che non imparasse a parlare era considerata un soggetto da internare: Eustacia, la madre di Temple, non si arrese finché non trovò un neurologo in grado di aiutarla. Temple impara a parlare, studia, diventa una scienziata, usa la sua intelligenza per inventare la “macchina degli abbracci”, che serve a tranquillizzare le persone sullo spettro dell’autismo che hanno problemi con il contatto fisico, e trova la sua vocazione nello studio del comportamento animale. Applicando agli animali le sensazioni che lei stessa prova – ansia, minaccia, terrore – Temple Grandin aiuta l’industria dell’allevamento ad applicare metodi più compassionevoli per portare le bestie alla macellazione. E abbracciare le persone adesso le piace, dice.

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