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Empowerment

«Politically correct»: ne usiamo o ne abusiamo?

Lorenzo Gasparrini
Di Lorenzo Gasparrini
Lorenzo Gasparrini ha insegnato in diverse università italiane e svolto ricerca per dipartimenti di Filosofia, di Architettura e Design Industriale, di Restauro e Conservazione dei BB.CC., di Scienze della Formazione, di Scienze Umanistiche. Ha lavorato come Editor e Web Editor per un importante editore accademico. I suoi interessi attuali sono i femminismi e i ‘Men’s studies’, anche come attivista organizzando incontri, seminari e discussioni in tutta Italia.
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Pubblicato il 29.01.2019 alle 13:14

Ci sono molti fenomeni, nell’ambito della comunicazione e dei media, che nascono con uno scopo preciso ma poi la situazione culturale ne cambia il significato originale, ne distorce la percezione e li porta a significare cose molto lontane dall’intenzione originaria.

È quello che sta accadendo con il cosiddetto politically correct, che di suo è già un’espressione scorretta: l’originale anglosassone è political correctness, cioè “correttezza politica” e non “politicamente corretto”, scambiando l’aggettivo con il sostantivo. Le origini di questa abitudine comunicativa sono diverse e lontane; il ritorno di questo codice linguistico, nei recenti decenni, è dovuto all’iniziativa di ambienti universitari americani liberal che hanno lavorato per rendere rispettoso verso minoranze e categorie solitamente non considerate dal discorso politico il linguaggio, allo scopo di parlare più liberamente di chi di solito da quel discorso politico è oggetto di pregiudizi.

Infatti sostituire le espressioni genericamente discriminatorie oppure offensive permette alcune libertà espressive:
– poter parlare di problemi politici di gruppi di individui ai quali non si appartiene, rivolgendosi a loro appunto in maniera appropriata e non da una posizione di presunta superiorità espressa da un linguaggio scorretto;
– poter nominare correttamente gruppi e individui non per loro “mancanze” o peggio ancora attraverso presunte colpe o difetti, ma attraverso termini puramente descrittivi e non giudicanti;
– poter evitare di veicolare e diffondere pregiudizi e luoghi comuni che derivano o hanno avuto origine proprio da una denominazione scorretta, volgare o insultante che però è entrata nel linguaggio corrente per abitudine.

Lo scopo di questa correctness è proprio quello di rendere possibile la libertà di parlare – e quindi, per esempio di criticare – gruppi o individui che per loro caratteristiche sociali o storiche hanno subito o ancora subiscono ingiuste discriminazioni, oppure sono oggetto di pregiudizi limitanti. Ci possono essere, e sicuramente ci sono, persone sgradevoli o socialmente pericolose e piene di idee sbagliate tra neri, gay, orientali, diversamente abili, ebrei, donne, come ce ne sono tra uomini bianchi etero occidentali; proprio una corretta scelta linguistica, priva di  qualsiasi violenza verbale, permette a chiunque di definirli, se necessario e con criterio, sgradevoli o socialmente pericolose o pieni di idee sbagliate per questi motivi, e non perché neri, gay, orientali, diversamente abili, ebrei, donne.

Purtroppo una sbagliata ricezione e diffusione dello scopo del politically correct ha generato un pregiudizio proprio sul politically correct: cioè che questo sia un impedimento al parlare sincero e schietto, come se esso imponesse di non criticare in nessun modo chi fa parte di categorie svantaggiate oppure oggetto di pregiudizio. Che è esattamente il contrario dello scopo per il quale è nato.
Ci sono molte persone che rifiutano la correctness linguistica perché la sentono come un bavaglio, una censura preventiva. Ma non è così: prima di tutto perché avere più scelte espressive non si capisce come potrebbe essere un impedimento all’espressione, casomai è una possibilità in più; in secondo luogo, la censura è per definizione l’esercizio di un potere: ma quelle categorie che appunto sono da sempre oggetto di discriminazione e di pregiudizio, tanto da richiedere pubblicamente e socialmente di essere definite in maniera corretta, non hanno alcun potere per fermare e cambiare le abitudini linguistiche.

Queste infatti sono alterabili solo nel tempo e dalla comunità dei parlanti che le adotta come usi comuni. Eliminare dal linguaggio le espressioni discriminatorie, gli insulti gratuiti, i pregiudizi e i luoghi comuni su gruppi e individui ci permette più possibilità espressive perché permette a tutti e tutte di essere nominati e nominate secondo le proprie scelte, anche oppositive; è grazie a queste possibilità di parola che possiamo formulare critiche più precise come complimenti più adatti, in ogni situazione.

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