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Innovazione e Sostenibilità

Augmented Eternity: l’alter ego digitale che parla e ragiona come noi. Ma può vivere in eterno.

Eugenio Spagnuolo
Di Eugenio Spagnuolo
Giornalista free lance, scrive di innovazione, cultura, tecnologia, blockchain. Tra le collaborazioni: Wired, Business Insider, Focus, Panorama, GQ, Vogue, Huffington Post. Cura anche corsi di argomenti vari e da qualche tempo si occupa di seo editoriale e della produzione di contenuti informativi a misura di social.
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Pubblicato il 20.12.2022 alle 8:41

C’è chi lavora per allungare la vita reale fino a 150 anni e chi, intanto, punta all’eternità… digitale. Gli scienziati del Media Lab del MIT di Boston hanno lanciato una piattaforma chiamata Augmented Eternity, che consente di creare l’alter ego digitale di una persona defunta partendo dalle foto, i messaggi, le e-mail e tutto ciò che ha pubblicato sui social. 

Come funziona Augmented Eternity

L’idea è di Hossein Rahnama, un docente dell’Università di Toronto, da cui ha preso forma un progetto sperimentale che, per ora, coinvolge 25 volontari disposti a farsi clonare la personalità da un algoritmo. Augmented Eternity, infatti, non si limita a riproporre vecchi contenuti postati su internet in memoria di un caro estinto, ma mette assieme questi dati per ricostruire i suoi modelli di pensiero e permettergli di interloquire con parenti e amici post mortem. 

“Per fare previsioni affidabili su ciò che un defunto potrebbe dire, servono grandi quantità di dati”, scrive il Washington Post che ha dedicato un lungo articolo all’argomento. “Per questo Augmented Eternity sembra più adatto ai millennial, che pubblicano tutto ciò che fanno su Internet e meno alle generazioni che non sono così presenti online. Eppure Rahnama riceve e-mail ogni settimana da persone in fase di malattia terminale, che chiedono se esiste un modo per conservare la loro eredità morale. Per ora c’è un gruppo di 25 persone che testano la piattaforma. Ma l’obiettivo è che tutti un giorno siano in grado di creare la propria entità digitale eterne”. Entità che non avrebbe a che fare solo con gli affetti: secondo Rahnama, infatti, l’algoritmo sarebbe in grado di assimilare l’abilità di un grande professionista come un avvocato o un architetto, addestrandosi sulla sua esperienza e sui suoi processi mentali, in modo da poter continuare a distribuire la sua conoscenza. 

Etica e eternità

Prima che Augmtened Eternity veda la luce, vanno risolte alcune questioni. “Oltre agli aspetti tecnologici che stiamo affrontando, un’area di interesse riguarda la natura etica dell’utilizzo di queste tecnologie. Chi possiede i dati? E davvero, abbiamo raggiunto un livello tale in cui possiamo fidarci degli algoritmi per rendere le nostre identità senzienti e consentire loro di evolversi dopo la nostra morte?”, si chiede l’inventore. “Stiamo cercando di rispondere a queste domande nei nostri programmi di controllo e di ricerca”.

Eternità digitale: i progetti in corso

Augmented Eternity non è l’unico progetto di eternità digitale a cui si lavora nei laboratori delle Università e dei centri di ricerca. A giugno, Amazon ha svelato una nuova funzionalità di Alexa, in cui l’assistente virtuale può leggere ad alta voce storie con la voce di una persona cara deceduta dopo aver assimilato un minuto del suo modo di parlare. E vari imprenditori nel campo dell’intelligenza artificiale, tra cui James Vlahos di HereAfter AI ed Eugenia Kuyda, che ha co-fondato le start-up Luka e Replika, lavorano a rappresentazioni virtuali di individui in grado di interagire con i loro familiari post mortem. HereAfter, per esempio, accompagna gli utenti attraverso un processo di intervista, registrando storie e ricordi. In seguito, i familiari potranno porre domande all’app che risponderà con la voce del defunto, utilizzando le informazioni accumulate nell’intervista, come fosse una normale conversazione. Vlahos ha avuto l’idea dopo aver creato un chatbot da circa una dozzina di registrazioni di un’ora a suo padre, in seguito alla diagnosi di male terminale. “Il motivo per cui le persone vogliono aggrapparsi ai propri cari è comprensibile”, conclude il Washington Post. “Come ha affermato Robert Neimeyer, direttore del Portland Institute for Loss and Transition, attaccarci agli altri, in particolare a coloro che ci offrono una sicurezza, come può esserlo un genitore per un figlio, è tra i nostri imperativi evolutivi più forti. E oggi le tecnologie sono reclutate per supportare questo obiettivo”. 

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