Liberalizzazione delle immagini dei dipinti nei musei: ovvero l’economia circolare della cultura
Economia Circolare e Zero Commons
Zero Commons. CC0. No rights reserved.
Sono tutte sigle che indicano quello che la pagina italiana Wikipedia definisce come protocollo, dotato di valore legale, per rinunciare al copyright sull’opera in tutto il mondo. Questo strumento, che non è una licenza, colloca il materiale nel pubblico dominio nelle giurisdizioni in cui è possibile, intendendo l’espressione pubblico dominio nel senso più ampio consentito dalla legge; nelle altre giurisdizioni, rinuncia al maggior numero di diritti possibile tramite una semplice licenza permissiva.
La questione Zero Commons è già da qualche anno, piuttosto “accesa” nel dibattito pubblico, soprattutto con riferimento alle possibilità di uso e riuso anche a fini commerciali delle opere d’arte esposte nei musei.
Da un lato, a livello internazionale, i musei che hanno deciso di adottare tale strumento sono sempre più numerosi, dall’altro in Italia, il concetto di Zero Commons, è andato ad infrangersi contro il muro di gomma che circonda il concetto di “arte” allorquando si parla di “commercio”.
Eppure, nel caso specifico, Zero Commons potrebbe essere interpretato come l’adozione di un “paradigma di economia circolare applicato alla cultura”.
Economia Circolare e Cultura
Dal punto di vista concettuale, in fin dei conti, il meccanismo dell’Economia Circolare si basa sulla previsione, detta in modo semplice, che le componenti che hanno determinato la realizzazione di un prodotto non vadano ad esaurire la propria vita utile con l’utilizzo dello stesso. Un pezzo di plastica può così divenire parte di un altro prodotto, così da ridurre al minimo i “rifiuti”.
Applicato alle dimensioni culturali, questo concetto tende ovviamente ad assumere un perimetro completamente diverso. Il discorso è più o meno semplice fin quando, del prodotto culturale, ne osserviamo soltanto il “supporto” così il “riciclo” della carta dei libri, della tela dei dipinti, degli scarti di lavorazione delle statue, assumono un’aura di socialmente desiderabile.
Si tratta di “materie prime”, e quindi non sono state ancora sacralizzate all’economia dell’unicità.
Invece di balzare direttamente al “riciclo” dell’opera “finita”, però, affrontiamo il discorso in modo graduale, ricordando che, nelle attuali catene di produzione industriale, lo status di un processo di lavorazione non è “ontologico”, ma “sistemico”. Le componenti meccaniche di un motore possono rappresentare il “prodotto finito” di un determinato processo produttivo, mentre sono dei “semilavorati” per l’industria che dovrà assemblarli.
Se un artista contemporaneo decidesse di acquistare 10 dipinti da un autore poco noto, tagliarli, ricomporli ed esporli in galleria, il ministero non chiederebbe una fee per ogni ritaglio.
In alcuni casi, ma stiamo parlando di rarità, il concetto di “economia circolare” nell’arte si può estendere fino a ricomprendere anche il prodotto fisico finito. Ipotizziamo il caso di un giovane artista che in una collettiva, decide di esporre l’opera di un artista affermato trovata, ed acquistata, in un mercatino.
In questo caso, l’opera gioca, ai sensi del nostro discorso, un rapporto ambiguo chi acquista l’opera del giovane artista in realtà acquista, da un lato, il “dipinto – oggetto” firmato da un artista noto, e dall’altro, “la riflessione” dell’artista emergente. Perché l’opera era sua.
E quindi l’opera d’arte dell’artista affermato, da “prodotto finito”, acquisisce lo status di “semilavorato”, perché ad essere esposta (e in vendita) ci sarebbe l’opera di un giovane artista.
Dinamica, questa, identifica a ciò che accadrebbe se fosse possibile “scaricare” le immagini in alta risoluzione delle opere d’arte custodite nei musei, modificarle, o “non modificarle”, e venderle in una forma differente.
Questa “dimensione” terza potrebbe essere la serigrafia su una maglietta, la copertina di un quadernone. Potrebbe essere modificata e venduta come “nuova opera”, o non modificata e venduta come “stampa”; potrebbe essere infine lasciata inalterata e venduta come NFT.
Le conseguenze della libertà di utilizzo.
Chi, davvero, ne perderebbe.
Non di certo la collettività, a cui non verrebbe “tolto” nulla.
Né tantomeno il privato, che avrebbe milioni a disposizione milioni di opere da poter modificare, utilizzare, distruggere e ricostruire.
Secondo una visione “ministeriale”, chi ne verrebbe a perdere è “l’opera in sé”, perché il suo uso si troverebbe ad essere associato ad elementi quotidiani che potrebbero sminuire il valore di unicità dell’opera. Ma questa è, appunto, un’interpretazione, cui si contrappone una visione opposta, che ritiene che un’opera d’arte acquisisce un ancor maggior valore se diviene simbolo diffuso del nostro quotidiano.
Probabilmente, l’unica componente sociale che ne uscirebbe danneggiata è il Ministero, che attualmente “vende” la possibilità di riutilizzare le immagini per scopi commerciali. Ma quel probabilmente è d’obbligo, perché a quanto pare, i costi di gestione delle strutture ministeriali deputate alla riscossione dei “diritti” associati all’utilizzo delle immagini, sono superiori ai ricavi che tali diritti ingenerano nelle casse dello Stato.
Se questo dato venisse confermato, ci troveremmo di fronte ad una sorta di paradosso i cittadini si troverebbero a pagare delle “tasse” per evitare che persone utilizzino gratuitamente qualcosa che è di pubblico dominio. Un po’ come se i cittadini fossero chiamati a pagare delle tasse per evitare la costruzione di prodotti realizzati con materiali riciclati.
In ogni caso, una posizione che forse è un po’ distante dalla concezione del riutilizzo di immagini nella nostra era contemporanea.