L’impatto ambientale (e non solo) del fast fashion
Cumuli di vestiti invenduti e quindi scartati: ecco come il fast fashion incide sull’ambiente
L’arrivo dei saldi, è un’opportunità, ma anche un’occasione per riflettere e fare acquisti più consapevoli. Non possiamo più permetterci di produrre e buttare via troppi vestiti, accumulando montagne di rifiuti, inquinando l’aria, consumando l’acqua e, indirettamente, incentivando forze lavoro in condizioni inumane per produrre capi a poco prezzo che soddisfano il bisogno di shopping sfrenato, effimero e compulsivo.
Il deserto di Atacama, 100mila chilometri quadrati tra Cile e Perù, da sempre accende l’immaginazione con i suoi colori, i suoi silenzi, i suoi spazi. Negli ultimi anni in questo ambiente si stanno formando immense dune, che però non hanno nulla a che vedere con la bellezza del paesaggio: sono cumuli di vestiti invenduti e quindi scartati, abbandonati in quella che è diventata la più grande discarica a cielo aperto del fast fashion nel mondo.
Un camion di rifiuti al secondo
Mentre leggete questo articolo, nel mondo ciò che contengono almeno dieci camion pieni di vestiti sta finendo in discarica. In un anno, infatti, gettiamo via 92 milioni di tonnellate di vestiti, l’equivalente di un camion ogni secondo, come si legge nel report della Ellen MacArthur Foundation del 2017 (i dati, quindi, saranno nel frattempo aumentati, e quindi la situazione sarà di gran lunga peggiorata). Ogni anno creiamo 100 miliardi di nuovi capi, e la quota di rifiuti generati potrebbe raggiungere 134 milioni di tonnellate, se non cambieremo il nostro modo di produrre e di consumare. Siamo nell’era della moda veloce, in cui possediamo molti vestiti, troppi, anzi.
Fast fashion: da democratico a distruttivo
Il tema torna attuale in questo periodo in cui stanno cominciando i saldi (dal 5 gennaio), quindi quel periodo in cui spesso compriamo vestiti di cui non abbiamo realmente bisogno solo perché costano un po’ meno, con i grandi brand della moda a basso costo pronti a regalarci, o quasi, magliette, pantaloni e scarpe di una delle loro mille collezioni annuali. Molti brand dai fatturati miliardari oggi sono in grado di individuare un trend, concepire un modello, creare una linea e metterla sul mercato in appena due settimane. In origine il fast fashion rappresentava la possibilità anche per le persone non ricche di vestirsi con un certo stile, portando quindi con sé un nuovo significato di moda, più democratico. Con il tempo, però, questo modello di consumo diventato dominante ha creato sempre più problemi, perché il costo di un prodotto, in questo caso un capo di abbigliamento, non è solo quello economico, ma anche quello ambientale, sociale, etico. In questo senso, la colossale industria della moda veloce sta devastando il Pianeta, e non solo per le montagne di rifiuti generati.
Il consumo d’acqua, le emissioni e gli altri danni ambientali
Secondo lo studio Carbon and water footprints assessment of cotton jeans using the method based on modularity: A full life cycle perspective, per produrre un paio di jeans si consumano 13mila litri di acqua e 90 chili di tonnellate equivalenti. Ora pensate a quei 100 miliardi di capi prodotti ogni anno. L’industria del fast fashion è la seconda per consumo d’acqua (215mila miliardi di litri all’anno) e emissioni di gas serra (è responsabile circa dell’8% del totale, una quota che potrebbe crescere nei prossimi anni). Non dimentichiamoci, tornando a parlare di rifiuti, che circa il 10 per cento delle microplastiche presenti negli oceani deriva dai tessuti sintetici, che ci mettono centinaia di anni a biodegradarsi.
I problemi sociali del fast fashion
Quando paghiamo una maglietta 3 o 5 euro quasi sicuramente c’è dietro un lavoratore o una lavoratrice sottopagata, spesso purtroppo minorenni. Secondo l’International Labour Organisation, nel mondo lavorano circa 170 milioni di bambini, molti dei quali nel settore della moda. Per far arricchire i grandi marchi del fast fashion, e tenere i loro ritmi di produzione infernali, milioni di persone lavorano, soprattutto in Asia, in condizioni di semi-schiavitù, sottopagate, sfruttate e senza alcuna tutela sindacale.
Come cambiare strada
Lo abbiamo detto spesso in relazione alle grandi crisi di questi anni, prime fra tutte quella climatica e ambientale: senza un intervento sistemico, difficilmente le cose cambieranno in maniera decisiva. I brand di moda devono investire in modelli di business basati sul riutilizzo dei vestiti e dei tessuti e massimizzare il ciclo di vita dei prodotti. Le istituzioni hanno il compito di favorire la transizione a una moda più slow, etica e sostenibile: per questo sono nati progetti come l’Alleanza per la moda sostenibile delle Nazioni Unite. Sono necessari incentivi, leggi e soprattutto un cambiamento radicale nel modello di sviluppo della nostra società, che non dev’essere più imperniato sulla logica del consumo a tutti costi, della necessità di possedere sempre più cose. Lo scorso gennaio Confesercenti aveva previsto che quattro italiani su dieci avrebbero approfittato dei saldi per acquistare dei prodotti, con le scarpe in cima alla lista dei desideri e quasi la metà degli acquisti (il 45%) da fare online. La spesa media stimata si aggirava tra i 120 e i 160 euro a testa, ma con grandi differenze: il 47% prevedeva di spendere meno di 100 euro, mentre il 4% più di 500.
La sensibilità, va detto, sta pian piano cambiando: oggi acquistare vestiti di seconda mano è non solo una scelta sostenibile, ma anche cool. La necessità di un cambio sistemico non toglie valore ai nostri gesti come comprare meno, solo quando abbiamo realmente bisogno di un capo di abbigliamento, prediligere il second hand e in generale brand con valori sostenibili certificati, riciclare o donare gli abiti che non mettiamo più. Quando acquistiamo una cosa, chiediamoci: ne abbiamo davvero bisogno? Dove possiamo comprare per impattare meno? Puntare perciò più sulla qualità, che sulla quantità oggi è il consiglio più utile e attuale che mai!