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parole che uccidono innovazione
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Innovazione e Sostenibilità

Attenti alle parole: ecco i discorsi che ostacolano l'innovazione

Roberto Panzarani
Di Roberto Panzarani
Presidente dello Studio Panzarani & Associates, docente di Innovation Management e di Governo dell’innovazione tecnologia presso la facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Ha sempre operato nel campo della formazione. Attualmente,  come esperto di Business Innovation, si occupa dello sviluppo di programmi di innovazione manageriale per il top management delle principali organizzazioni italiane e internazionali. Il suo nuovo libro “Viaggio nell’innovazione Dentro gli ecosistemi del cambiamento globale” è edito Guerini e per Centodieci racconta come facilitare quei cambiamenti interni alle aziende in grado di creare nuove occasioni di business.
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Pubblicato il 08.02.2018 alle 15:25

La capacità di innovare è ormai la regola per le aziende, i manager, gli imprenditori, i giovani startupper che vogliono non solo restare competitivi ma anche emergere in quest’era iperglobalizzata.
Innovazione e creatività sono gli elementi che stravolgono il quotidiano, che rompono gli schemi precostituiti, che portano aria nuova, che cambiano i paradigmi fino a quel punto utilizzati. Sostituire l’esistente con qualcosa di nuovo e originale, che in breve termine sarà già vecchio e pronto al ricambio. Perché la globalizzazione è anche velocità, caos e il pensiero creativo ha bisogno di essere nutrito e stimolato in continuazione per mantenersi vigile e pronto alla nuova idea.
L’innovazione non è né scontata, né automatica e sicuramente anche quando se ne parla bisogna avere qualche accorgimento sul linguaggio che si usa.
Stephanie Vozza, nel suo articolo pubblicato su fastcompany.com, These Three Phrases Are Killing Innovation At Your Workplace, ne sottolinea tre che in modo particolare possono compromettere la motivazione ad innovare: le “buone pratiche”, il “ritorno sugli investimenti” e “quando ho lavorato per” sono assolutamente da evitare.
Per creare un ambiente innovativo è importante respirare una cultura che non soffochi il pensiero creativo ed essere consapevoli che molto spesso le parole possono mandare messaggi facili al fraintendimento che fanno desistere dall’azione innovativa.
Perché è sbagliato parlare di Best Practices? Perché quando si diventa consapevoli che la pratica portata avanti da qualcuno è talmente buona da essere presa come esempio sono già trascorsi almeno due, tre o quattro anni e, a quel punto, non è più una best practice, anzi molto probabilmente è già stata sostituita da un’altra pratica che ancora non si conosce. “Se Stephanie Meyer avesse usato le migliori pratiche per la serie Twilight, avrebbe scritto di vampiri che dormono durante il giorno e bruciano quando sono al sole. Invece, ha creato vampiri che vanno al liceo e brillano come diamanti” afferma Frans Johansson, autore di The Medici Effect: What Elephants & Epidemics Can Teach Us about Innovation, CEO di The Medici Group.
Le best practice hanno un forte potere ispiratore quando si utilizzano in settori diversi dal proprio, in quel momento sì che possono far nascere le migliori idee.
Il ritorno sull’investimento (ROI) invece blocca l’innovazione perché se diventa un parametro di scelta si sarà sempre più preoccupati per i soldi che non per l’idea da portare avanti. Sempre Johansson ricorda che a nove mesi dalla creazione di Google, i fondatori volevano vendere Google a Yahoo ma ritenendo basso il ROI non accettarono, non immaginando lontanamente il potere innovativo che invece aveva Google.
Come sempre afferma Stephanie Vozza, liberarsi del passato, anche linguisticamente parlando, è quello che bisogna fare quando si presenta un’idea nuova, perciò la frase “quando ho lavorato per” è assolutamente off topic perché l’innovazione è ignota, non si sa dove può portare e confrontarla con qualcosa di passato è restrittivo, poco incoraggiante e per nulla creativo.
Attenzione dunque alle frasi killer che ostacolano il processo innovativo e che si mascherano da esperienza o conoscenza, come ad esempio quando si fa una affermazione e poi si continua con il “ma” perché la persona che la pronuncia può essere un disfattista o può aver paura del cambiamento. Se così fosse, non bisogna scoraggiarsi, ma essere pronti a convincere del contrario l’interlocutore che trasformerà così il suo “sì, ma” in un “sì e”, sicuramente dal tono più partecipativo che spinge verso un confronto sull’idea.

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