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Arte e Cultura

Scritture veloci e altre quisquilie: che cosa succede alla lingua sui social?

Vera Gheno
Di Vera Gheno
Vera Gheno è una sociolinguista. Nasce in Ungheria nel 1975. Si laurea e si addottora in Linguistica presso l’Università di Firenze, specializzandosi sulla comunicazione mediata dal computer. Insegna all’Università di Firenze (Laboratorio di italiano scritto), all’Università per Stranieri di Siena (Applicazioni informatiche per le scienze umane) e al Middlebury College, sede di Firenze (Sociolinguistica). Collabora con l’Accademia della Crusca dal 2000. Al momento è membro della redazione di consulenza linguistica e gestisce il profilo Twitter dell’ente. Ha pubblicato un libro, “Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi)” con Franco Cesati Editore.
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Pubblicato il 19.12.2017 alle 13:41

L’atteggiamento nei confronti della lingua che si vede sui social va dall’entusiasmo al fastidio venato di sospetto. Per molti, si tratta di una degenerazione dell’italiano, con conseguenti lamentele sullo stato di salute della nostra lingua. O tempora, o mores! Ma è giustificato questo atteggiamento?
Intanto, vediamo quali sono le caratteristiche più evidenti della lingua dei social. Possiamo individuare dei “filoni”, che sono noti agli studiosi da almeno vent’anni (quando i social ancora non si chiamavano nemmeno social, insomma, ma i linguisti già studiavano la questione).

  • Scritture brevi, ossia tutte le tecniche per comprimere la scrittura nel minor spazio possibile: acronimi come ASAP (as soon as possible), troncamenti come asp (aspetta), tachigrafie (dal greco tachys, ‘veloce’) come cmq (comunque) o la mitica x per per. Queste tecniche derivano da un’esigenza di economia, sia di spazio che di denaro: nascono in un’epoca in cui i bit costavano, dato che la tariffa di connessione era a tempo, e gli sms erano quasi un lusso. Più si riusciva a comprimere il testo, più si poteva limitare il tempo di connessione – o contenere il messaggio in un solo SMS – con conseguente risparmio. Oggi rimangono dei vezzi che non sono più strettamente necessari nemmeno su Twitter, passato a 280 caratteri, o negli SMS, che sono quasi sempre inclusi gratuitamente nei pacchetti offerti dai gestori di telefonia, o costano comunque relativamente poco, ma sono piuttosto diventati un aspetto quasi folkloristico della comunicazione social: un modo per riconoscersi tra i membri della stessa “tribù”.
  • Faccine, dalle prime emoticon come 🙂 (nata nel 1982) agli emoji come 😉. Nascono dall’esigenza di veicolare attraverso la scrittura tutto quello che normalmente riusciamo a comunicare di persona con le espressioni del viso, il tono della voce, la prossemica, cioè la posizione che assumiamo nello spazio, la gestualità. Se ben usate, insomma, servono per colorire o rendere più espressiva, meno fraintendibile la nostra scrittura. Basterebbe non abusarne: sono un codice iconico che può funzionare bene in aggiunta alle parole, ma dubito possa sostituirle del tutto.
  • Inglese, divisibile in tre grandi gruppi: i tecnicismi della rete (come screenshot o reply), gli pseudotecnicismi dei nuovi canali di comunicazione e socializzazione (da like a taggare a hashtag), i forestierismi di lusso, che servono per dare colore a quanto si scrive (come facepalm o epic fail), ma non sono motivati da nessuna reale esigenza comunicativa, se non la voglia di giocare col linguaggio.
  • Dialetto, usato o per orgoglio localistico (si pensi ai gruppi Facebook come Sei de Roma se…) o come puro elemento espressivo, in mattoncini isolati, quasi sempre indipendenti dalle specifiche competenze dialettali del singolo: dal daje romano all’esclamazione minchia!, elementi diffusi un po’ in tutta Italia. Contribuiscono alla loro diffusione gli influencer della radio, della tv, dei giornali e delle riviste, del cinema e della rete stessa, che le diffondono così a livello nazionale.
  • Invenzione linguistica, spesso velocissima e fugace, un po’ come accade nei linguaggi giovanili. Alcune parole magari arrivano pure a entrare nei dizionari, molte no: dipende dalla loro circolazione dentro e fuori della rete; uno dei miei neologismi preferiti che ho visto girare in rete è boutanade, la cui etimologia – piuttosto trasparente – lascio da scoprire ai lettori.
  • Punteggiatura, spesso spostata sui segni di maggiore espressività e in numero superiore al consueto: tanti puntini, quindi, e punti esclamativi o interrogativi!!!!!!
  • Uso strategico delle maiuscole e minuscole: SCRIVERE TUTTO MAIUSCOLO, SI SA, EQUIVALE DA SEMPRE A URLARE, mentre è piuttosto consueto non digitare le minuscole quando si scrive, per esempio su WhatsApp, dove viene omesso, molto spesso, il punto stesso: basta premere “invio” per segmentare il discorso.

Nel complesso, questi elementi tendono a rendere la scrittura visivamente insolita, per alcuni versi quasi sgradevole. Sembra sciatta, priva di “regole”, così lontana da quanto ci hanno insegnato a scuola.
Orbene, il punto è proprio questo: non è la scrittura che abbiamo imparato a scuola, e non dovrebbe venire paragonata a questa. Si tratta di un tipo di scrittura, anzi di digitazione, del tutto inedito.
Forse è la prima volta che ci troviamo di fronte a un italiano scritto completamente informale, come chiosa Giuseppe Antonelli. Effettivamente, di solito siamo abbastanza abituati all’informalità nell’orale, ma non nello scritto. In fondo, fino all’avvento dei social, le forme di scrittura non tradizionali erano poche: ad esempio, gli slogan tracciati sui muri, oppure per noi, figli della generazione Uniposca, le scritte su qualsiasi superficie sulla quale si poteva intervenire con il pennarellone magico: caschi, parabrezza, banchi, porte dei bagni, vetri, zaini.
La scrittura sui social, a dire il vero, non è neanche lingua scritta in senso stretto, quanto piuttosto lingua digitata. Se la consideriamo in questo modo, come una varietà di lingua che ha un suo perché in alcuni specifici contesti, forse inizia a farci meno impressione. Abbiamo a che fare con una forma di comunicazione nemmeno così nuova, dato che sono almeno vent’anni che la si studia, come notavo all’inizio; via via ha preso piede con il diffondersi delle tecnologie e delle competenze, diventando molto diffusa, ma non per questo soverchiando altre forme di scrittura più “tradizionale”.
Insomma, dal mio punto di vista, non c’è nessun motivo per non impiegare questi modi di comunicare o per guardarli con ostilità; l’unico vero problema si ha quando, in mancanza di stimoli culturali, le persone si appiattiscono su questo unico registro comunicativo, dimostrando incapacità di uscirne anche quando necessario: non possiamo rivolgerci a un professore, a un collega di lavoro, a un ufficiale di polizia, a un avvocato con lo stesso tono e modo con cui interagiamo con i nostri amici su WhatsApp o sulla nostra bacheca di Facebook quando stiamo “cazzeggiando”. Il problema, insomma, non è la comunicazione via social in sé: lo diventa nel momento in cui si rivela l’unica modalità comunicativa posseduta dalla persona.
Per il resto, io penso che i social, per quanto concerne la lingua, ci possano dare una grande lezione: mai come oggi abbiamo avuto la possibilità di vedere con chiarezza, nero su bianco, non solo l’evoluzione della lingua alle prese con un nuovo mezzo di comunicazione, ma anche le varie criticità che hanno, in questo momento storico, gli italiani nell’usare la loro lingua madre. Non lamentiamoci, insomma, di quello che vediamo. Chiediamoci, piuttosto, che cosa possiamo fare in prima persona per mantenere alta la nostra padronanza dell’italiano. Ricordiamo, come sempre, che la responsabilità dello stato di salute di ogni lingua viva è soprattutto dei suoi parlanti. In altre parole, qnd serve ha 1 sns anke qs scrittura. In altri contesti, è decisamente meglio evitare 🙂

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