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Arte e Cultura

Il teatro è chiuso, viva il teatro

Simona Spaventa
Di Simona Spaventa
Piemontese, dopo la laurea in lettere moderne e un master in filologia romanza a Friburgo, ha frequentato l’Ifg di Milano ed è diventata giornalista professionista. Oggi è freelance e critico teatrale. Dal 2001 collabora stabilmente con le pagine milanesi e nazionali del quotidiano LaRepubblica per il teatro e il cinema. Tra le sue altre collaborazioni quella con il manifesto e, in passato, con il mensile di Emergency E. La sua passione, oltre al cinema e al teatro, sono i gatti e i viaggi in Oriente.
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Pubblicato il 26.03.2021 alle 9:15

27 marzo 2021: sarà una Giornata mondiale del Teatro di resistenza, riflessione, attesa. La seconda a sipari chiusi e platee vuote per la pandemia. Non era mai successo in sessant’anni, da quando nel 1961 a Vienna è stata istituita, su iniziativa dell’Istituto Internazionale del Teatro. I numeri non mentono né addolciscono la pillola, per natura fissano con freddezza matematica. E la situazione del settore attraversa una crisi senza precedenti: il teatro nel 2020 ha segnato un -70,71% di ingressi e un -78,45% di spesa al botteghino, sono i dati del rapporto Siae, e in tutto lo spettacolo dal vivo si calcola che almeno 300mila lavoratori, in gran parte precari, siano rimasti senza occupazione.

Ma se pure è chiuso, il teatro è vivo. Lo gridano direttori di Stabili e teatri privati, attori e registi, maestranze e spettatori che già il 22 febbraio si erano mobilitati per l’iniziativa “Facciamo luce sul teatro!” con letture in strada (a norma di distanziamento), foyer aperti (ma inaccessibili) e cartelloni accesi. Oggi, nel giorno che il ministro della Cultura Franceschini aveva fissato come quello della possibile riapertura, il Paese è quasi del tutto in zona rossa, e le manifestazioni correranno soprattutto sul web che, dice il direttore del Teatro di Roma Giorgio Barberio Corsetti, «in questo momento ci permette di lasciare teso quel filo di partecipazione con la città».

Le sale restano a porte chiuse, è vero, eppure non tutto è immobile dietro le quinte. Anzi. Nella capitale italiana del teatro, Milano, il nuovo corso dopo l’emergenza Covid si annuncia stimolante e ricco di cambiamenti. Il primo, annunciato già prima della pandemia, è il cambio al vertice del teatro più importante d’Italia, il Piccolo. La successione alla reggenza ventennale di Sergio Escobar, che ha dato le dimissioni a luglio, è arrivata dopo mesi di diatribe politiche e un braccio di ferro tra Comune e Regione. La scelta è caduta su Claudio Longhi, regista e docente all’università di Bologna, a lungo assistente di Luca Ronconi, già brillante direttore di Ert (Emilia-Romagna Teatro): un profilo alto, che promette una linea attenta a panorami non stantii, aperti alla ricerca e al respiro internazionale. 

La novità destinata a sparigliare davvero le carte, però, non arriva da un teatro, ma da un museo. Alla Triennale, Umberto Angelini, direttore della sezione teatro da sempre interessato alla scena contemporanea più sperimentale, ha chiamato Romeo Castellucci come “Grand Invité” fino al 2024. A partire da gennaio 2021. Ovvero in piena pandemia, come a voler tracciare percorsi nuovi e spalancare prospettive inedite sulla scena milanese, e non solo. Sessant’anni, di Cesena, fondatore nel 1981 della Socíetas Raffaello Sanzio, uno dei gruppi più radicali e innovativi della ricerca teatrale, Leone d’oro alla Biennale di Venezia e Chevalier des Arts e des Lettres della Repubblica francese, Castellucci è il regista italiano più in vista in Europa. Apprezzato all’estero, più che in patria: quello della Triennale è il primo incarico che un’istituzione del nostro paese offre all’artista, se si eccettua la direzione, nel 2005, della Biennale Teatro. 

Le aspettative sono alle stelle, soprattutto da parte di chi, stanco di allestimenti paludati, cerca un teatro  in sintonia con il presente. E quello di Castellucci da sempre è alieno dalla tradizione e lontanissimo dal repertorio, più vicino alle suggestioni visive delle arti figurative, del resto alla base della formazione del regista, che ha studiato pittura e scenografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Immagini-rivelazione, visioni oniriche e sconvolgenti, miti arcaici nutrono i suoi lavori, tra cui restano memorabili titoli come Orestea, Tragedia Endogonidia, e lo “scandaloso” Sul concetto di volto nell’esistenza di Dio che provocò le proteste di estremisti cattolici e della ultradestra di Casa Pound all’epoca delle rappresentazioni, una decina di anni fa. Un teatro potente, mai accomodante, raccontato bene dal documentario di Giulio Boato Theatron, disponibile su Raiplay.

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