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Immagine principale di: Pasolini, Gassman, Tognazzi, centenari dell'età d'oro del cinema
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Arte e Cultura

Pasolini, Gassman, Tognazzi, centenari dell’età d’oro del cinema

Simona Spaventa
Di Simona Spaventa
Piemontese, dopo la laurea in lettere moderne e un master in filologia romanza a Friburgo, ha frequentato l’Ifg di Milano ed è diventata giornalista professionista. Oggi è freelance e critico teatrale. Dal 2001 collabora stabilmente con le pagine milanesi e nazionali del quotidiano LaRepubblica per il teatro e il cinema. Tra le sue altre collaborazioni quella con il manifesto e, in passato, con il mensile di Emergency E. La sua passione, oltre al cinema e al teatro, sono i gatti e i viaggi in Oriente.
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Pubblicato il 02.02.2022 alle 9:00

In questo 2022 si intrecciano le celebrazioni del centenario dalla nascita di tre giganti dell’età d’oro del nostro cinema. E chissà che cosa avrebbero detto oggi Pier Paolo Pasolini, Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman di questi nostri giorni in cui la crisi delle sale e lo strapotere dello streaming sembrano ormai irreversibili.

Ai loro tempi, il cinema italiano era vitale, ricco, splendido, una macchina in corsa che produceva ogni anno centinaia di titoli, dalle commediole più sgarrupate ai film d’autore più raffinati. Nel solo 1963 escono due capisaldi come Il Gattopardo di Visconti e 8 ½ di Fellini, ma anche titoli d’impegno civile come Le mani sulla città di Francesco Rosi e il grottesco e sulfureo primo film italiano di Marco Ferreri, L’ape regina (con Tognazzi protagonista, per inciso). E proprio in quel 1963 le parabole lontane di Pasolini e Tognazzi si incrociano per la prima volta. Succede sul set di Ro.Go.Pa.G., film a episodi che prende il titolo dalle iniziali dei quattro autori: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. L’episodio più memorabile sarà quello di Pasolini, allora alla sua terza regia dopo Accattone e Mamma Roma: è il mediometraggio La ricotta, dove un povero sottoproletario, un ricottaro, muore sulla croce come Cristo. Tognazzi, invece, recita in quello di Gregoretti, Il pollo ruspante, dove è un classico capofamiglia piccolo borghese degli anni del boom. Esistono foto dei due insieme, fianco a fianco sullo stesso tavolo, alla conferenza stampa del film, ma per ritrovarsi ci vorrà ancora qualche anno.

Nel 1969 Tognazzi, ormai saldo nella sua nuova strada di interprete di cinema d’autore, avrà una parte in Porcile. Il film, che nella sua ferocia antiborghese tocca tabù come il cannibalismo e l’attrazione sessuale per gli animali, viene criticato aspramente. Ma Tognazzi è comunque felice dell’incontro, e dichiarerà ai giornalisti: «Quella con Pasolini è stata una esperienza affascinante, non tanto per il film, non era certo la sua opera più riuscita. Ho interpretato un personaggio seguendo le indicazioni di Pasolini, e quel lavoro mi è piaciuto molto. Era strano, io stesso non capivo il significato delle parole che pronunciavo. Io sono un autodidatta ignorante, in confronto a Pasolini non so proprio niente, zero. Lui è un grande uomo di cultura, una enciclopedia, sa tutto. Perciò, in Porcile non sono stati tanto il personaggio o il film a interessarmi, quanto la meravigliosa possibilità, attraverso il mio lavoro, di conoscere degli uomini intelligenti, dei poeti, dei pazzi geniali. Per me nella vita l’insegnamento viene prima di tutto dagli altri uomini. Mi piace di più leggere un uomo piuttosto che un libro». Proprio questa freschezza quasi ingenua era piaciuta a Pasolini, che invece non chiamò mai a recitare per lui Gassman, il “grande attore”, l’intellettuale, il mattatore impostato. 

Eppure, l’alchimia tra il “ruspante” Tognazzi e l’“artificioso” Gassman funzionava eccome, e avrebbe dato vita a un sodalizio d’arte lungo ben sette film (l’ultimo, La terrazza di Ettore Scola, nel 1980) che sarebbe sconfinato anche nella vita vera, con un’amicizia duratura. Il primo titolo in cui i due lavorano insieme è La marcia su Roma. Siamo nel 1962 e dietro la macchina da presa c’è Dino Risi che li dirigerà in altre tre pellicole, compreso il cult I mostri. Proprio Risi riflette sulla loro differenza, che era anche attrazione, in un’intervista a Repubblica alla morte di Tognazzi, nel 1990: «Gassman e Tognazzi hanno avuto due percorsi opposti e paralleli, nei quali ciascuno desiderava di raggiungere l’altro. Tognazzi voleva affinarsi, acculturarsi. Gassman aspirava a scendere in platea, cercava l’autenticità che Ugo aveva innata. Nel tempo, hanno trovato un rapporto vicino all’amicizia. Ma allora la rivalità si sentiva, si manifestava in una forma di gelosia su di me. Se ero troppo amichevole e confidenziale con uno, l’altro si risentiva, magari si chiudeva in uno sdegnato mutismo». Una rivalità bonaria, perfino creativa: «In I mostri erano i due spaventosi poliziotti che arrestavano il mostro assassino, presunto autore di efferati delitti, un poveraccio dalla faccia smarrita. Prima di girare, Gassman volle sapere che caratterizzazione avrebbe fatto Tognazzi. Lo strabico, gli dissi. E allora lui si presentò addirittura senza un dente davanti per fregarlo in mostruosità». 

La frequentazione fuori dal set era costante. Gassman era presenza assidua alla rituale “cena dei dodici apostoli” che Tognazzi dava ogni venerdì sera nella sua villa di Torvajanica, insieme ad altri membri del nostro Gotha cinematografico come Villaggio, Monicelli, Vianello e gli sceneggiatori Benvenuti e De Bernardi. Con la sua eleganza British, gli capitò anche di partecipare al torneo di tennis che si teneva ogni estate a Villa Tognazzi: il premio era lo “Scolapasta d’oro”. Negli anni della maturità, i due amici condivisero anche il male di vivere: la depressione. Lo ha raccontato in un’intervista al Corriere della Sera la figlia di Ugo, Maria Sole: «Un Natale invitammo nella casa di Velletri Vittorio Gassman, depresso anche lui. Mamma e sua moglie Diletta pensavano che la compagnia reciproca li avrebbe risollevati. Vittorio arriva, i due si chiudono nella camera di papà. Un’ora, due… Non uscivano più. Finalmente escono, e noi: “Allora, che vi siete detti tutto questo tempo?”. E loro: “Niente, abbiamo pianto”. Piangevano per la fine del grande cinema e della loro gioventù». 

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