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Arte e Cultura

Elogio delle riviste aziendali (ai tempi del coronavirus)

Serena Scarpello
Di Serena Scarpello
È Head of Content di Studio Editoriale e Direttore Responsabile del brand magazine “LINC”. Nel 2017 ha pubblicato il libro d’inchiesta Comunicare meno, comunicare meglio (Guerini Next). È stata conduttrice televisiva per il canale finanziario di SKY Class CNBC dal 2008 al 2013. Si è laureata presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università LUISS Guido Carli. Ha vissuto a Madrid e a Bruxelles.
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Pubblicato il 16.03.2020 alle 10:29

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La stagione in cui sono nati la gran parte dei magazine aziendali in Italia va dalla fine degli anni ‘40 alla fine degli anni ’60: finita l’economia di guerra e andando verso la società dei consumi, in parallelo con la crescita e la maturità dell’editoria, sono emerse riviste che hanno fatto la storia della comunicazione aziendale come “Bellezza d’Italia” (Dompè, 1947), “Pirelli – Rivista di informazione e tecnica” (Pirelli, 1948), “Civiltà delle Macchine” (Finmeccanica, 1953), “Il Gatto Selvatico” (Eni, 1955), solo per citarne alcune.
Gli stessi premi letterari nascono un quel particolare momento storico (e non solo in Italia): il Premio Strega è del 1947, il Premio Bancarella del 1952, il Campiello del 1962, il Pulitzer del 1948, il National Book Award del 1950 e il Man Booker Prize del 1968.
Negli anni del dopoguerra è cresciuta l’alfabetizzazione e la lettura è diventata sempre di più una pratica quotidiana. Per questo molte aziende (illuminate e lungimiranti) hanno pensato di fondare le proprie riviste, non tanto per parlare di loro (anzi, quasi per nulla) quanto per diffondere conoscenza e dare un servizio alla comunità che era affamata di sapere.

In quegli anni sono state messe le basi del cosiddetto “brand journalism” (in Italia, perché nel resto del mondo si era già diffuso a partire dalla fine dell’800 quando l’azienda di macchine agricole John Deere pubblicò il numero uno di The Furrow, rivista che tuttora conta 2 milioni di lettori nel mondo). Un nuovo modo di fare comunicazione che portò i grandi poeti, letterati, artisti e giornalisti del tempo a trascorrere molto tempo all’interno delle stesse aziende: Dino Buzzati, Indro Montanelli, Giuseppe Ungaretti, Gio Ponti, Eugenio Montale, Umberto Eco.

Una pratica che si è rallentata alla fine del ‘900 per riprendere un forte slancio nei primi anni 2000 con la nascita dei social network ma ancora di più dopo il 2007 – 2008, gli anni della crisi dei mutui subprime e del crack di Lehman Brothers. Iniziò allora una nuova fase di alfabetizzazione: quella digitale, che ha visto nascere i primi blog aziendali e ha avviato la trasformazione di vecchi siti in veri e propri magazine online, oltre che l’apertura di canali social attraverso i quali non venivano più raccontate solo le notizie aziendali ma dove altri contenuti, e quindi molte firme appartenenti al mondo della cultura e dell’informazione, hanno trovato nuovi spazi di espressione.

Ed è così che i brand sono diventati sempre più, non solo media company, ma delle vere e proprie content factory: laboratori culturali in cui si producono e diffondono contenuti verificati e di grande approfondimento, che non sono legati alle notizie real time ma che anzi si prendono il giusto tempo per interiorizzarle e restituirle agli utenti, solo una volta che si sono sganciate dalla rincorsa al trending topic. Una buona comunicazione affidabile e di qualità che spesso (non sempre) riesce a distinguersi dal rumore di sottofondo effetto di quella che l’OMS qualche giorno fa ha chiamato “Infodemia”, termine appena entrato nei neologismi del 2020 della Treccani, che cita:

«Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili».

La speranza è che la pandemia che stiamo vivendo in questi giorni e che ci costringe a stare a casa, a leggere e approfondire, a cercare di capire tutti un po’ di più, ci possa portare ad una nuova economia dell’attenzione, in cui selezioniamo non solo le nostre fonti ma anche i nostri laboratori culturali, e alla riconsiderazione (nel senso di nuova attenzione, appunto) di quel tipo di giornalismo che è entrato nelle aziende per aiutarle a diffondere contenuti di interesse collettivo, che va oltre ogni interesse di parte e che ha come unico obiettivo quello di aumentare interesse nei confronti della conoscenza stessa.

Insomma, lode alla cultura trasmessa dalle aziende che non si ferma mai, specie in un momento storico come quello attuale in cui il coronavirus ha fatto riemergere i bassifondi di Internet e la spettacolarizzazione a tutti i costi.

Immagine in evidenza: Bellezza d’Italia, n.9/10, Natale 1950, rivista di Dompé Farmaceutici pubblicata sul libro “Comunicare Meno, Comunicare Meglio” (Guerini Next, 2017).

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