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Arte e Cultura

Madina, una kamikaze alla Scala

Simona Spaventa
Di Simona Spaventa
Piemontese, dopo la laurea in lettere moderne e un master in filologia romanza a Friburgo, ha frequentato l’Ifg di Milano ed è diventata giornalista professionista. Oggi è freelance e critico teatrale. Dal 2001 collabora stabilmente con le pagine milanesi e nazionali del quotidiano LaRepubblica per il teatro e il cinema. Tra le sue altre collaborazioni quella con il manifesto e, in passato, con il mensile di Emergency E. La sua passione, oltre al cinema e al teatro, sono i gatti e i viaggi in Oriente.
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Pubblicato il 06.10.2021 alle 9:00

Terrorismo, fondamentalismo islamico, violenza sulle donne. Sono dirompenti i temi che affronta Madina, nuova creazione commissionata dal Teatro alla Scala al compositore Fabio Vacchi e al coreografo Mauro Bigonzetti che, bloccata dalla pandemia lo scorso anno, arriva finalmente al debutto in questi giorni (è in scena fino al 14 ottobre). E dirompente quest’opera-balletto che unisce musica, danza, canto e teatro lo è ancora di più se si pensa che, per la prima volta nella storia della Scala e, probabilmente, del balletto, una kamikaze irrompe sulla scena con tutto il carico di tensione e dolore della sua condizione, tornata prepotentemente in prima pagina con la nuova, recentissima crisi in Afghanistan. 

La bolla serena, quasi intangibile del balletto qui trema sotto i colpi della Storia, spalancando inedite prospettive a un’arte per lo più fuori dal tempo. E sarà sorprendente vedere l’étoile perfetta, Roberto Bolle, nella parte sgradevole del carnefice, che con la violenza estrema dello stupro piega la protagonista Antonella Albano alla sua volontà di distruzione. Se si aggiungono la direzione musicale di Michele Gamba, il canto di Anna-Doris Capitelli e Chuan Wang, il coro della Scala (registrato a causa del Covid), la voce recitante di Fabrizio Falco e un corpo di ballo di una quarantina di elementi, si capisce che ci sarà da parlarne a lungo, e non solo tra i loggionisti.

Ma veniamo alla genesi del balletto, e alla sua trama. Il libretto di Emmanuelle de Villepin, cugina dell’ex primo ministro francese Dominique e signora Rodolfo De Benedetti, è un adattamento del  suo romanzo La ragazza che non voleva morire (Longanesi, 2008), ispirato a una storia vera. Quella di una giovane donna cecena costretta a diventare kamikaze dagli uomini della sua famiglia, che però al momento di azionare la cintura esplosiva e farsi saltare sceglierà di non uccidere e non morire. Nell’opera-balletto, ogni riferimento geografico preciso è stato cancellato, e si è mantenuta solo l’opposizione tra una città occidentale e un ambiente “altro”, «un luogo inquietante e quasi apocalittico – spiega Vacchi, uno dei massimi compositori contemporanei – che non ha niente di esotico, di pittoresco. È una lontananza che aiuta a essere ancora più espliciti e duri verso questa storia: una ragazza stritolata da ideologie deliranti, una vittima gettata in un mare inarrestabile di violenza». 

Strumento di questa violenza, e di un autoritarismo maschile cieco, è per paradosso il nostro danzatore più apollineo, Roberto Bolle, nel ruolo di Kamzan, zio di Madina, un ruolo che «si scosta in maniera radicale da quelli più noti e rappresentativi del suo repertorio – osserva Bigonzetti -. È  un bruto, è il carnefice, ma poi diventa vittima, come in tutte le tragedie. Roberto è fantastico, fa paura, ha una freddezza e una potenza espressiva incredibile. Con la sua forza fisica amplifica tutto, specialmente quando danza e si scontra con Madina. È un ruolo davvero inedito, il pubblico rimarrà stupito». 

Insomma, quello che accadrà in scena sarà «un pugno nello stomaco», lo definisce senza giri di parole Bigonzetti che ha costruito un balletto dove, spiega, «coreograficamente non c’è nulla di rilassante per il danzatore o per chi guarda, c’è una tensione continua, costante, perché lo richiede il tema e il racconto, che è forte, sanguigno, di pelle, di pancia. La violenza, la costrizione, il dramma, sono temi attuali, universali, sociali. Il mio lavoro di ricerca è stato proprio su come il corpo potesse raccontare queste tematiche. Lo stupro, la violenza, la morte, tutto questo richiedeva un linguaggio forte, violento, crudo». 

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