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Empowerment

Perché un brand deve saper creare community virtuali e reali

Sara Doris
Di Sara Doris
Presidente Esecutivo di Fondazione Mediolanum Onlus, in iniziative di solidarietà a favore dell’infanzia in condizioni di disagio, in Italia e nel mondo. Contemporaneamente si occupa di attendere e seguire direttamente la crescita e l’educazione dei cinque figli frutto del suo matrimonio con Oscar di Montigny. Le scelte di vita e l’esperienza professionale le hanno donato una vocazione profonda e una gamma di valori di rara sensibilità che condivide con i lettori di Centodieci.
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Pubblicato il 08.07.2019 alle 11:26

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Mi piace molto leggere le pagine di economia dei quotidiani. Mi piace apprendere le storie delle tante imprese che il genio innovativo italiano ha espresso ed esprime tra le eccellenze del mondo. Recentemente sul dorso del lunedì di un primario giornale italiano, mi sono imbattuta in un approfondimento dedicato a uno strumento di marketing arcinoto quanto diffuso: le carte fedeltà.  

Il brand, i dati e i timori sulla privacy

Non avendo mai visto attorno all’argomento un particolare interesse dal punto di vista giornalistico, in quanto è probabilmente vecchio anche per quelle pubblicazioni di settore che si rivolgono agli addetti ai lavori, mi sono incuriosita e ho iniziato a leggere, cercando la notizia nascosta magari dietro a qualche caso di cronaca, che per fortuna non c’era. C’era la raccomandazione a considerare il costo nascosto dietro alle varie raccolte punti al quale non sempre i consumatori prestano attenzione: i dati. 

In effetti sappiamo più o meno tutti che attraverso le carte fedeltà “doniamo” alle aziende un quadro dettagliato delle nostre abitudini di acquisto, a che ora facciamo la spesa, cosa compriamo, come paghiamo, quanto ci lasciamo tentare dalle promozioni. Con le informazioni che noi forniamo, i marchi possono definire o ridefinire le proprie strategie e, in questo modo, far crescere gli affari. 

Quello che l’estensore ci voleva evidenziare è che spesso diamo inconsapevolmente la nostra privacy in cambio di uno sconto che a ben guardare non è poi così conveniente visto quanto di nostro c’è sul piatto.

Essere parte di una comunità

A parte il fatto che regaliamo con molta più leggerezza ben altri dati, molto più sensibili e molto più identificativi, attraverso la quantità dei post che volontariamente pubblichiamo sui social media spesso estendendo la stessa nostra incoscienza anche ai nostri bambini, adolescenti e minori, senza avere nulla in cambio se non rischio di essere vittime dell’odio dilagante. Quello che una carta fedeltà ci regala in cambio della profilazione delle nostre abitudini di spesa, più che il premio finale o lo sconto, di cui spesso non abbiamo bisogno, è di farci sentire parte della comunità del brand, parte di un gioco, di cui la carta è solo una parte. Ma esistono giochi per passare il tempo e giochi per lasciare tracce di senso.

Esistono brand in Italia e nel mondo che da tempo stanno creando delle community sempre più significative che, al di là dei consumi, si riconoscono in progetti di valore condivisi. Così una semplice raccolta punti che al “consumatore” non costa niente se non forse la pena di ricordare di richiedere l’ennesimo frullatore o set di valigie che finiranno inesorabilmente in cantina, può essere trasformata in azioni benefiche concrete a favore dei più deboli. Pasti caldi, vaccini, cure mediche, giorni o anni di scuola, tutele per i più piccoli come per le madri o le donne maltrattate. Non sono pochi questi brand, non sono poche le persone che convertono semplici punti virtuali in realtà per il prossimo. Perché, vedete, i punti che noi spesso lasciamo scadere perché nelle nostre vite non valgono niente, per altri, altrove nel mondo, possono valere la speranza del futuro. 

 

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