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Empowerment

I benefici del dubbio: perché dubitare non è segno di debolezza

Claudio Gagliardini
Di Claudio Gagliardini
Nato a Roma nel 1970, manca per pochi decenni la natività digitale, ma recupera con insospettabile freschezza alla fine degli anni ‘90 dopo numerose esperienze in ambito turistico-ricettivo, in giro per l’Italia. Il demone del web s’insinua in lui agli esordi della Rete nel Bel Paese, fino a diventare una professione, con l’avvento dei media sociali e del web 2.0, che integra l’impegno sino a quel momento speso in comunicazione e marketing per-digitali. Oggi è consulente, formatore e relatore in marketing e comunicazione, con particolare specializzazione sui social media e sulle opportunità offerte dalla Rete. Socio e co-fondatore di seidigitale.com [...]
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Pubblicato il 11.01.2022 alle 10:15

Chi ha troppi dubbi viene spesso ritenuto un debole, uno che non sa neppure lui cosa vuole oppure uno che deve avere per forza qualcosa da recriminare o da nascondere. O ancora, in alternativa, una mina vagante e un pericolo per la società da riportare ad una sana e costruttiva fiducia, nel sistema, nel progresso, nelle istituzioni e nel prossimo.
Dubitare non è però necessariamente un atteggiamento negativo.
Al contrario, il dubbio è il motore della riflessione, di un’analisi che rifiuta la superficialità e che non dà niente per scontato. Il dubbio richiede approfondimento e studio, porta via tempo e può rallentare decisioni e processi, ma quel tempo è ben investito quando il dubbio non nasconde pavidità, pigrizia o procrastinazione. 

Dubitare significa non accettare verità preconfezionate e implica una presa di coscienza e di responsabilità, che sempre più si tende invece a delegare. Dubitare non significa soltanto chiedersi, ad esempio, se si stia facendo la cosa giusta oppure no, ma analizzare le cose e gli scenari che si è in grado di elaborare, di comprendere o anche soltanto di immaginare, per valutare la realtà in modo olistico e vedere le cose al tempo stesso da dentro e da fuori, dall’alto e dal basso, da vicino e da lontano, nell’insieme e nei singoli elementi. 

Se scomporre i problemi per risolverli un pezzo alla volta è certamente un’ottima pratica, è pur vero che “il tutto è superiore alla somma delle singole parti” che lo compongono (teoria della Gestalt). Questo doveva essere ben chiaro ad un genio come Leonardo Da Vinci, i cui studi abbracciarono pressoché tutto il sapere della sua epoca. Egli fu scienziato e scrisse trattati di anatomia, botanica, matematica, ma fu anche ingegnere, progettista, architetto, filosofo, pittore, scultore, disegnatore, scenografo e addirittura musicista; uno così oggi lo definiremmo un tuttologo e probabilmente lo additeremmo come un talentuoso imbonitore, se non addirittura un truffatore. Faremmo bene, perché in 500 anni le scienze, le arti, i mestieri hanno fatto un tale balzo in avanti che nessun essere umano potrebbe oggi padroneggiare davvero e a fondo più di un singolo ambito. Al contrario, gli ultimi secoli ci hanno spinto verso una specializzazione estrema che ha creato nuove materie di studio e nuove professionalità.

Negli anni ci siamo spinti ad un livello di conoscenza tale da portarci a ritenere che i massimi esperti mondiali di ciascuna disciplina siano su un piano talmente elevato da non poter interagire se non tra loro stessi, ciascuno nel proprio ristretto ambito e a livelli impossibili da comprendere per chi non abbia fatto analoghi percorsi di studio e di ricerca.

Oggi chi mette in dubbio il frutto di quegli studi e di quelle competenze è considerato come un eretico dei tempi di Leonardo, e del resto è del tutto evidente che non ci possa essere confronto alla pari tra un qualsiasi uomo della strada e un Nobel per la fisica, la chimica o la medicina. Ciò che dobbiamo tuttavia evitare è che si innalzino le scienze a religione e che il dubbio venga progressivamente eradicato tout court in quanto pericoloso per il progresso e per la civiltà. Il peggior paradigma che si possa immaginare per una società libera, equa e pacifica, infatti, è quello secondo cui chi non è in grado di comprendere non abbia il diritto di esprimersi e di dubitare su ciò che lo riguarda. Non sulla scienza. Non sulla ricerca. Non sul progresso o sull’evoluzione della civiltà, ma su ciò che tutto questo comporta per le persone e per il loro diritto ad un’esistenza piena, libera e felice. Che siano i frutti della scienza e del progresso a garantire questi diritti non è affatto scontato, soprattutto se la “filiera” delle certezze che portano alle scelte più importanti non è capace o non ha interesse a guardare il tutto, oltre e più che le singole parti che lo compongono, e a considerare il tutto un bene inalienabile e superiore rispetto a qualsiasi politica, indirizzo o scelta. Non avere dubbi su questo non significa avere il coraggio di puntare dritto al futuro senza inutili indugi, ma stravolgere il senso stesso della scienza e del progresso, che proprio sul dubbio se sullo scetticismo si basano e trovano la propria strada.

Dubitare è dunque non soltanto un atto di coraggio, anziché di codardia, ma il solo modo possibile per ottenere il meglio ed evitare i rischi che ogni immutabile e fideistica certezza inevitabilmente comporta. Dubitare significa però individuare una strada tra molte e percorrerla, consapevoli di poter tornare sui propri passi se si rivelerà sbagliata e di trovare lungo il cammino bivi, ostacoli, salite e ulteriori decisioni da prendere, di fronte alle quali non dovremo mai consentire al dubbio di paralizzarci e di impedirci di scegliere.

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