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Empowerment

Il futuro del lavoro come apprendimento

Roberto Panzarani
Di Roberto Panzarani
Presidente dello Studio Panzarani & Associates, docente di Innovation Management e di Governo dell’innovazione tecnologia presso la facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Ha sempre operato nel campo della formazione. Attualmente,  come esperto di Business Innovation, si occupa dello sviluppo di programmi di innovazione manageriale per il top management delle principali organizzazioni italiane e internazionali. Il suo nuovo libro “Viaggio nell’innovazione Dentro gli ecosistemi del cambiamento globale” è edito Guerini e per Centodieci racconta come facilitare quei cambiamenti interni alle aziende in grado di creare nuove occasioni di business.
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Pubblicato il 07.03.2023 alle 9:46

L'importanza della formazione all'interno dell'azienda, anche per le giovani generazioni.

Le generazioni più giovani hanno una visione completamente differente del lavoro, molto più legata al significato che non al fatto di avere un lavoro in sé. Mentre, per le generazioni del passato era importante raggiungere una posizione professionale stabile e sicura, oggi questo non è disprezzato, ma non basta più: le nuove generazioni vogliono un lavoro che dia un senso profondo alla loro vita e il loro rapporto non è con una singola azienda o istituzione, ma con il mercato del lavoro che deve essere ricco di possibilità per le persone che continuano ad apprendere e a formarsi nel tempo.

Sono tanti gli interrogativi sul futuro del lavoro, tra cui quello di capire come le diverse generazioni vivono i cambiamenti veloci e sempre più disruptive del mondo professionale. Le statistiche ci dicono che in Italia, nei primi nove mesi del 2022, oltre 1,66 milioni di lavoratori hanno lasciato volontariamente il lavoro, una percentuale nettamente maggiore rispetto all’anno precedente. Da che prospettiva guardare questo fenomeno?

Cosa ci dicono i dati

Una ricerca di Adobe condotta su quasi 10.000 persone in otto mercati globali ha rilevato che l’80% degli intervistati risente di almeno un problema globale e questa preoccupazione ha un impatto negativo sulla produttività e soddisfazione sul lavoro. 

La ricerca ci dice anche che i lavoratori più giovani tendono a essere più colpiti rispetto ai lavoratori più anziani, con il 93% della GenZ, l’87% dei Millennial, il 79% della GenX e il 71% dei Boomer che segnalano impatti negativi. E il 44% dei dipendenti di tutte le fasce d’età si sente più ansioso e più scoraggiato che mai. A procurare ansie sono il sentirsi inadeguati rispetto all’istruzione e alle competenze che molti ritengo ormai obsolete dopo la pandemia.

L’importanza della formazione

Ciò che soprattutto la Generazione Z e i Millennial chiedono al datore di lavoro è l’opportunità di acquisire sempre nuove competenze, di apprendere sempre nuove conoscenze e purtroppo su questo aspetto diverse aziende sono impreparate a soddisfare queste richieste.

Più formazione equivale a maggiore produttività, è questo che emerge dai diversi sondaggi e non può che trovarci d’accordo. Quello che ci si aspetta da un’azienda non è la perfezione, ma sicuramente una costante azione verso una formazione che ascolti anche i bisogni dei dipendenti e non sia standardizzata, che non badi solo all’aspetto quantitativo, ma anche a quello qualitativo (non sempre tanta formazione corrisponde a grande soddisfazione) e che non sia chiusa, ma aperta verso l’esterno, verso la comunità.

Cosa chiedono al lavoro le nuove generazioni

La pandemia ha lasciato tanto dietro di sé e ha fatto cadere diversi miti, come quello di dedicare la propria vita al lavoro: quella della Generazione Z e dei Millennial è una ribellione contro la mentalità della Silicon Valley, del lavoro folle 20 ore al giorno. Il cambiamento dei parametri, dei paradigmi ha sempre fatto parte del mondo e quello che adesso la Generazione Z chiede alle aziende è di aprirsi a un lavoro flessibile, un lavoro che tenga conto anche del benessere del dipendente nella scala dei valori per la produttività, un lavoro che tenga in equilibrio la vita privata con la vita professionale. 

Ciò che andrebbe compreso è che non viene messa in discussione la voglia di lavorare, bensì quella di creare un rapporto relazionale aperto e attivo tra il datore e il dipendente.

Da non sottovalutare, soprattutto a seguito di quanto vissuto durante la pandemia e di quanto ancora si sta vivendo, quella che viene definita la crisi del quarto di vita (Quarter-Life Crisis) e che colpisce i Millennial: l’ansia del cambiamento, del tempo che passa, del ricominciare da capo, del non sentirsi adeguati a ruoli e richieste professionali. Lo studio di Agarwal et al del 2020, Examining the Phenomenon of Quarter-Life Crisis Through Artificial Intelligence and the Language of Twitter, realizzato osservando i social media di alcuni studenti tra i diciotto e i trent’anni ha rilevato l’utilizzo di parole legate al QLC e, nello specifico, lavoro è stata la parola che ha dato maggiori evidenze legate al fenomeno, insieme a tempo. 

Un futuro da creare

Brunello Cucinelli, dal palco del Next Generation Fest a Firenze, definisce i Genzer, ovvero i rappresentanti della Generazione Z, le “sentinelle del futuro” e sottolinea l’importanza di coltivare “l’intelligenza dell’anima”. “Lo studio è il sale della terra – dice – ma c’è un’intelligenza che viene dallo studio, e c’è un’intelligenza che viene dall’anima. Se curate quella che viene dall’anima, sarete degli esseri umani speciali. Dovete essere gli artefici di un nuovo contratto sociale con il creato”.

Questo contrasterebbe la Great Resignation? Non siamo certi di una risposta affermativa, ma sicuramente è il primo passo per rendere più facile, ai dipendenti, la scelta di  restare in un’azienda.

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