Omar Di Felice: l’ultra-cyclist si racconta
Un'intervista all'uomo che gira il mondo in bicicletta, compiendo imprese ai limiti del possibile e sensibilizzando sugli effetti della crisi climatica.
Omar Di Felice si spinge spesso oltre limiti fisici, mentali e geografici inesplorati. Proprio per questo sembra aver imparato a convivere con i propri limiti. Tra i migliori ultra-cyclist italiani e mondiali di oggi, autore di libri e documentari sulle sue incredibili imprese, a 41 anni ha completato questo marzo il percorso Alone in Ladakh, una lunga traversata della regione del Ladakh, sul versante indiano dell’Himalaya, affrontata in inverno e in solitaria, in compagnia soltanto della sua bicicletta. Parliamo di un viaggio di oltre mille chilometri e circa 20mila di dislivello, con il picco dei 5.359 metri del passo del Khardung, teatro di una delle strade più alte del mondo. La sua avventura arrivava dopo la difficile spedizione in Antartide, dove era andato per attraversare il continente con una fat-bike, nell’ambito del progetto Bike to 1.5°, ma era stato costretto a ritirarsi per problemi personali. Nonostante questo intoppo, Omar è ripartito subito, affrontando con grande spirito la pedalata nel Ladakh. Di questo, e in generale della sua missione come ultra-cyclist, ne abbiamo parlato proprio con lui.
Sei partito per l’impresa in Ladakh poco dopo la complicata spedizione in Antartide. Come sei riuscito a ripartire subito, affrontando gli eventuali timori di non riuscire a portare a termine il viaggio?
«Il Ladakh ha rappresentato un po’ una sorta di ripartenza dopo l’avventura in Antartide. Questo tipo di avventure non ha mai un esito scontato, quindi prima di partire si mette sempre in conto di non riuscire a portare a termine la spedizione in cui ci si è imbarcati. Ovviamente avevo qualche timore, perché era la prima volta dopo un rientro, non mi piace chiamarlo fallimento, però insomma non ero riuscito a portare a termine l’avventura, quindi i primi giorni sono stati giorni in cui ho cercato un po’ di rompere il ghiaccio e di rientrare nella routine dell’avventura senza lasciarmi condizionare da quello che era successo in Antartide».
Cosa ti lascia, a livello di crescita personale e relazionale, un’avventura del genere? Pensiamo agli incontri che hai fatto con le persone e i luoghi.
«Queste avventure, soprattutto quelle in luoghi molto particolari come la regione himalayana del Ladakh, hanno dei risvolti umani. Ogni giorno ho trovato rifugio in dei villaggi dove ho conosciuto delle persone che mi hanno ospitato, quindi sicuramente l’aspetto umano è quello preponderante, soprattutto perché parliamo di avventure molto estreme e molto difficili, dove paradossalmente proprio l’aspetto umano ti dà la possibilità di andare avanti. A differenza di quello che si pensi mi sento più al sicuro quando sto attraversando una regione himalayana su passi a 5mila metri di quanto non mi senta qui, in un contesto di ipercivilizzazione, dove però le persone il più delle volte tendono a girare la testa dall’altra parte e a non interessarsi delle tue esigenze. Invece ogni volta che entravo in un villaggio c’era sempre qualcuno pronto ad accogliermi, a darmi da mangiare o da bere e a offrirmi un posto caldo in cui ripararmi».
Per quanto riguarda invece il tuo percorso di ultra-cyclist, come sei “cresciuto” dopo questa impresa?
«Questa avventura segna un altro piccolo tassello. Non ho fatto nulla di diverso da quello a cui sono abituato, però è stata un’avventura che mi ha permesso di ricominciare a prendere fiducia in me stesso, quindi sicuramente, dopo l’Antartide, il Ladakh è stato il momento in cui ho riacquistato un po’ di fiducia e ho capito che quanto successo in Antartide è stato solamente un incidente di percorso».
Sei partito anche per sensibilizzare le persone che ti seguono sui problemi legati alla crisi climatica: cos’hai scoperto su questo fronte nel Ladakh?
«Più che scoperto, ho avuto conferma di quanto le comunità più remote e dove si vive con meno siano quelle maggiormente impattate dai cambiamenti climatici, di cui tra l’altro sono anche le minori responsabili, perché sono luoghi del mondo in cui si inquina poco e si subiscono gli effetti di qualcosa che invece è stato causato da noi. Non dobbiamo mai dimenticarci che i cambiamenti climatici sono stati causati dal super sviluppo che noi abbiamo avuto in Occidente con il boom industriale e loro, oggi, si trovano a pagarne le conseguenze. Sono luoghi dove già si vive con poco e le risorse sono sempre di meno, quindi mi porto a casa un’attenzione maggiore, la voglia di diffondere il messaggio per cui noi magari qui dovremmo solamente abbassare di un paio di gradi la temperatura del riscaldamento, mentre ci sono luoghi del mondo dove non c’è da mangiare, non c’è da bere e ce ne sarà sempre di meno. Questa è una cosa di cui secondo me dovremmo prendere tutti quanti più coscienza».
Di tutti i tuoi viaggi in bicicletta, puoi dirci i tre che ti sono rimasti più nel cuore e perché?
«Fare una classifica mi è veramente difficile, ma posso dire tre viaggi simbolo: sicuramente il primo, da Lourdes a Santiago de Compostela in cinque giorni, che è stato un po’ l’inizio di tutto. Poi la prima volta che ho portato la mia bicicletta in inverno a Capo Nord, dove nessuno pensava si potesse pedalare. E infine, cito l’avventura nel deserto del Gobi, in Mongolia, dove ho sperimentato la grande umanità dei popoli asiatici, soprattutto di quelli che hanno meno, ma sono disposti a darti di più».
Chiudo con una domanda che ti avranno già fatto in tanti: come si decide di diventare un ultra-cyclist, e come ci si riesce a livello mentale, psicologico e fisico?
«Si decide di diventare ultra-cyclist come si decide di diventare qualunque altra cosa nella vita, o almeno questo è quello che io ho fatto e ho cercato di diffondere, cioè il messaggio per cui bisogna inseguire le proprie passioni e i propri desideri più forti. Ovviamente poi per diventare ultra-cyclist e iniziare questo percorso dal punto di vista fisico e mentale ci vogliono da un lato una preparazione atletica, un allenamento e una dedizione costanti, giornalieri, che devono essere ripetuti ogni giorno dell’anno per tutta la vita, perché sono carriere molto difficili, dove non si può improvvisare. Dall’altro lato ci vogliono tanto studio e tanta applicazione, perché far diventare uno sport minore la tua professione, e quindi guadagnare in questo modo, significa anche essere in grado di relazionarsi con le aziende, realizzare contenuti come documentari, libri, tutte cose che io faccio. Alla base c’è una grande fase di studio e di applicazione, un po’ come tutti i lavori: è un mestiere molto impegnativo, ma da questo punto di vista è un mestiere come tanti altri».