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Empowerment

Paura di tornare a lavoro: sicuri che il motivo sia il contagio?

Valerio Mariani
Di Valerio Mariani
Valerio Mariani, giornalista, creatore di contenuti, consulente di digital marketing, digital PR e professore universitario.  Collabora e ha collaborato con diverse testate editoriali occupandosi principalmente di Tecnologia e Lifestyle. E’ stato responsabile di alcune delle più diffuse riviste consumer di tecnologia e, per 8 anni, della redazione digital di Marie Claire. Ha visto pubblicata la sua firma su decine di testate italiane ed è stato collaboratore fisso per Panorama, La Stampa, GQ, Repubblica tra gli altri.  Specializzato in temi sull’innovazione digitale, marketing digitale, imprenditoria digitale, formazione, cultura di massa e tecnologia per le aziende, occupa il suo tempo nella ricerca spasmodica [...]
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Pubblicato il 05.10.2021 alle 9:00

Tornare a lavoro in presenza dopo quasi due anni passati lontano dall’ufficio sarà un trauma che il ritorno dalle ferie – il classico holiday blues – in confronto è stata una passeggiata. 

La maggioranza dei sondaggi svolti negli ultimi mesi è concorde: il “white collar” è terrorizzato dall’eventualità di ritornare alla sua scrivania. Ma siamo sicuri, come sostengono diverse ricerche, che il motivo sia solo di contrarre una qualche variante del Covid-19? Non troppo.

In questo momento di indecisione collettiva, non aiuta, poi, la riluttanza delle aziende. Sundar Pichai, il CEO di Google, ha tenuto uno speech di un minuto in cui ha ridefinito i ruoli delle priorità della vita. Cinque palline (lavoro, famiglia, salute, amici, anima) di cui solo una (il lavoro) è di gomma, le altre di vetro. Il messaggio è semplice: un nuovo lavoro si trova sempre, famiglia, salute, amici e anima (forse) no.

Un messaggio che non fa altro che soffiare sul fuoco della questione. Cosa pensa Pichai, e Nadella, e Cook e i CEO delle banche newyorkesi del ritorno in sede dei dipendenti? Quello che pensano ora è ciò che penseranno tra un mese? Divisi tra un’imposizione e una riflessione più pacata, temporeggiano, procrastinano. Per la maggior parte delle grandi aziende americane se ne riparla a gennaio 2022, varianti permettendo.

Se mi obblighi a tornare full time, mi licenzio

Un sondaggio svolto da Wfh Research per conto di Forbes su 5mila americani ha evidenziato che gli stessi tornerebbero a lavoro in media per un massimo di 2,5 giorni a settimana. La metà dei giorni lavorativi. A questi dati se ne aggiungono altri. Il più sconvolgente? Il 40% degli americani cambierebbe immediatamente lavoro se fosse costretto a tornare in presenza (Voxeu – Survey of Working Arrangements and Attitudes).

Ora, la motivazione più diffusa che tiene i colletti bianchi fuori dalla sede è la paura di contrarre il virus, in ufficio o durante il tragitto. Ma c’è anche la paura di rompere anche una sola delle cinque palline di Pichai: mantenere il worklife balance. Chi ha questo timore è la stessa persona che in tempi di lockdown si lamentava di non riuscire a lavorare in casa per colpa dei figli? 

Insomma, ci abbiamo preso gusto a non timbrare il cartellino. Ad assaporare la libertà di intervallare lavoro e svago, magari addirittura in residenze amene. E ora sarà molto difficile tornare a lavoro. Restringendo il campo ai Millennials e alla Gen Z, la pandemia non ha fatto altro che amplificare un sentimento recondito, un’avversione alla macchinetta del caffè, spesso figlia di una certa sociopatia insita nel Dna di due generazioni. 

Un bel problema, la soluzione è il welfare aziendale?

E ora è un bel problema per le aziende. Che dovranno lavorare come non mai sulla cultura aziendale e sul welfare per non rischiare esodi di massa o, alla meglio, cali di produttività tangibili. Le aziende ora devono trovare e trasmettere le giuste motivazioni per il ritorno in ufficio. 

Supportate dalle tante società di consulenza specializzate nella costruzione di pacchetti per il welfare aziendale cresciute come funghi negli ultimi mesi, le aziende dovranno investire dei soldi e “vendersi” molto bene ai propri dipendenti. Esattamente come si faceva fino a poco tempo fa per reclutare i Millennials e gli appartenenti alla Gen Z: se firmi con noi ti offriamo lo smart working!

Ebbene, ora il benefit “Smart Working” è preteso come una commodity. 

Il problema, però, è che determinate attività non possono essere svolte con successo sul divano di casa. E non si parla solo dei lavori in catena di montaggio. Quanto conta il guardarsi negli occhi senza il filtro di uno schermo per costruire un’empatia con un cliente o un fornitore? Molto. Inutile negarlo. Quanto conta il linguaggio del corpo durante un meeting interno o un’attività di recruiting? Quanto durante la costruzione e la coltivazione di un network professionale?

Secondo la HR Trends & Salary Survey 2021 condotta da Randstad Professionals, la principale sfida che dovranno affrontare le aziende nel 2021 è la creazione e il mantenimento di un buon ambiente di lavoro che tenga conto delle specificità del lavoro a distanza o ibrido (lo afferma il 52% degli intervistati, +11% rispetto al 2020), seguita dall’impegno per trattenere i migliori talenti già presenti in azienda (46%, +6%) e dall’incremento delle performance e della produttività (46%, stabile rispetto allo scorso anno, quando era in prima posizione).

Auguri a tutti i dipartimenti HR.

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