I SEGNI E I SIMBOLI di Joe Tilson
Date dell'evento
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18/06/2023 • 17:00
Via G. Oberdan, 75, 73100 Lecce LE
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18/06/2023 • 10:00
Via G. Oberdan, 75, 73100 Lecce LE
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17/06/2023 • 17:00
Via G. Oberdan, 75, 73100 Lecce LE
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17/06/2023 • 10:00
Via G. Oberdan, 75, 73100 Lecce LE
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16/06/2023 • 17:00
Via G. Oberdan, 75, 73100 Lecce LE
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16/06/2023 • 10:00
Via G. Oberdan, 75, 73100 Lecce LE
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15/06/2023 • 19:00
Via G. Oberdan, 75, 73100 Lecce LE
Dettagli
Joe Tilson nasce a Londra nel 1928. Dal 1944 al 1946 lavora come falegname, quindi presta servizio militare nella RAF fino al 1949. Nello stesso anno inizia a frequentare la Martin’s School of Art e dall952 al 1955 il Royal College of Art dove conosce Peter Blake e Richard Smith. Nel I955 vince il Premio Roma e trasferitosi in Italia, ove resta fino al 1958, sposa Joslyn Morton allieva di Marino Marini. Rientrato a Londra dal 1958 al 1963 insegna presso l’University College di Londra, il Kings College, l’università di Durham a Newcastle, la School of Visual Arts di New York, la Staatliche Hochschule für
Bildende Kunste di Amburgo.
Nel 1962 tiene la prima mostra personale presso la galleria Malborough di Londra e nel 1964 viene invitato alla XXXII
Biennale di Venezia ed alla Triennale di Milano.
La sua già sessantennale esperienza artistica è costellata da innumerevoli mostre e riconoscimenti. È stato esponente di spicco della Pop Art Inglese negli anni 60, per poi allontanarsi da quel movimento impegnandosi in nuove ricerche artisti-che. Le sue opere di grande intensità, evocative e simboliche, ricche di profondi significati, lo hanno reso famoso nel mondo.
Vive tra l’Inghilterra e l’Italia, paese al quale è particolarmente legato.
“Una delle cose più belle riguardo la pittura, per me, è la sua presenza totalmente silenziosa, dove l’autore non deve intervenire né commentare – quale sarebbe infatti l’utilità di tirare gli altri per la manica spiegandogli cosa intendi dire?”
L’opera di Joe Tilson ha questo di caratteristico: che con estrema semplici-tà, immediatezza ed infantile ingenuità mostra alcuni degli aspetti più profondi e nascosti della creatività artistica e del linguaggio stesso dell’arte. Anzi, si può dire che il contenuto di essa sia proprio quel che resta oggi del miste-ro, dell’ignoto, dell’indicibile, del sacro di cui l’opera d’arte è stata da sempre tradizionalmente intrisa. Ma svelando Tilson questo segreto con leggerezza, quasi scherzandoci sopra, lo mantiene ancora tale, perché in fondo chi crederebbe ad una verità tanto essenziale se confessata in modo così sponta-neo?
La sua esperienza artistica deve molto ed è sempre andata di pari passo con quella artigianale.
Anche alle opere realizzate da Tilson negli anni Sessanta, all’interno del clima pop formatosi nel Royal College of Art di Londra (Blake, Boshier, Hockney,
loe Tilson
Jones, Phillips, Smith) e nel clima così giovanile e commerciale tipico di quel movimento, verrà riconosciuto quell’aspetto artigianale proprio da Marco Livingstone, uno dei più autorevoli critici e storici dell’arte contemporanea, in particolare per quel che riguarda la Pop Art: “nel |960 Tilson eseguì una prima serie di rilievi in legno, avvalendosi dell’esperienza di falegname che aveva acquisito da ragazzo”.
Non è un caso che questa esperienza artigianale abbia dato vita ad opere che somigliano a giocattoli componibili, smon-tabili, a divertenti puzzle dai colori vivaci e dalle forme facilmente riconoscibili o, a volte, del tutto astratte. Una sorta di arte combinatoria in cui l’aspetto ludico si mischia costantemente con quello mitologico, totemico e tribale. Divinità antiche (Dioniso, Pan, Demetra), caratteri greci ed etruschi, simboli sacri ed arcarci il Tirso, il Labirinto), accostamenti dei termini “terra”, “focolare”, “arte” (Earth, Hearth, Art) incisi a fuoco su tasselli di legno dentro una sorta di esagono magi-
Natco (allusione al più famoso “quadrato magico”): tutto ciò richiama ad una eredità ancestrale di cui queste opere sembra-
no essere feticci del rito, del culto, oggetti divinatori o utensili magici e apotropaici.
Alla base della poetica estetica di Tilson c’è, molto probabilmente, l’implicita dichiarazione che il gioco è la sostanza antropologica della nostra esperienza dell’arte e che qualsiasi pratica religiosa e culturale disvela ed implica sempre un aspetto ludico. Riflettere su di un’opera d’arte perciò è quasi costruirne il senso profondo, significa partecipare all’esperienza creativa sottesa ad essa, essere disposti a trasformarsi da spettatore a giocatore che muove i pezzi di cui si compone l’opera, che è quasi una scacchiera magica, partecipando così alla costruzione del suo senso e della sua funzione, perché, come sostiene Gadamer, “identità dell’opera non è garantita da una qualche determinazione formalistica o classicisti-ca, ma viene costituita nella misura in cui accettiamo come un compito la costruzione dell’opera stessa… l’esperienza del bello, ed in particolare del bello dell’arte, è l’evocazione magica di un possibile ordine sacro, dovunque esso sia”.
Ecco che allora le tavole sacre di Tilson, con i loro riferimenti alla verità del simbolo, priva oggi non tanto di segni formali di riferimento quanto di contenuti profondi (non c’è più una realtà simboleggiata ma soltanto informatizzata, comunicata ed esposta), si fanno residui arcaici depositati sulla spiaggia da onde che provengono da un paradiso per-
duto, infantile ed arcaico. La sua opera, soprattutto quella che si è sviluppata dagli anni Settanta in poi, è perciò una testimonianza silenziosa, pudica, di un linguaggio artistico fuori tempo e inattuale e per questo tanto più sorprenden-te, inatteso e ricco di meraviglia. Una cantilena che racconta delle favole con aria sorridente e pulita (come le foto che ritraggono l’artista, sempre sereno e sognante), che illustra dei giochi, senza insegnarne le regole ma solo mostrandone alcuni dei possibili usi. Come ogni opera fosse un invito personale a partecipare alla sua personale ed
austera bellezza.
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