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Innovazione e Sostenibilità

I «lavori stupidi» e i loro effetti sulla società

Michele Boroni
Di Michele Boroni
Si occupa di contenuti e comunicazione per brand, persone e progetti editoriali. Ha scritto e scrive di marketing, cultura pop, media e tecnologia per Il Foglio, Il Messaggero, Wired, Rockol, Elle Decor e LINK. Autore tv per Rai 5 (“Cool Tour”,”Ghiaccio Bollente”). Responsabile contenuti di IF! Italians Festival. Per Centodieci racconta e recensisce quei saggi che offrono una lettura lucida e critica del contemporaneo che indirizzano verso una crescita sostenibile, da tutti i punti di vista.
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Pubblicato il 21.03.2019 alle 14:30

Sui profondi cambiamenti del mercato del lavoro negli ultimi decenni sono stati scritti molti saggi che analizzano con precisione cosa è successo e quali potranno essere gli scenari futuri. Poi però ci sono quei libri che osservano la situazione da un punto di vista laterale, magari un po’ impertinente, ma che paradossalmente riescono a spiegare meglio la questione da analizzare.

È il caso, ad esempio, di questo libro di David Graeber che nasce originariamente da un post sul blog della rivista Strike, pubblicato nel 2013 dal titolo “On the phenomenon of bullshit jobs” che in pochi giorni diventò virale, evidentemente toccando un nervo scoperto, aprendo gli occhi su molte situazioni vicine ad ognuno di noi, scatenando discussioni, e che quindi hanno portato Graeber, antropologo e accademico statunitense, ad estendere il tema nel libro “Bullshit Jobs” tradotto anche in Italia per i tipi di Garzanti (400 pagine, 19 euro).

I Bullshit Jobs – traducibili come “lavori del cavolo” o “lavori stupidi” – sono quelli senza un uno scopo chiaro, che possono quindi essere anche comodi e ben pagati, ma che se domani scomparissero probabilmente nessuno ne sentirebbe la mancanza, anzi, forse il mondo sarebbe migliore. I bullshit jobs sono secondo l’autore dei lavori fini a sé stessi che prendono dalla società più di quanto offrono. Da non confondere con i cosiddetti “lavoracci”, che corrispondono tipicamente a impieghi mal pagati, degradanti e faticosi, ma che, alla fine, possono essere utili per qualcuno.

I “lavori del cavolo”, sostiene Graeber, sono molto diffusi in tutti i settori, specialmente in quelli del terziario avanzato – finanza, pubblicità, informatica, consulenza legale, ma anche giornalismo e cultura – e rappresentano un mix di tempo perso, stress e infelicità.

Graeber analizza gli effetti del bullshit job sulla persona, sulla società e sull’economia. Ci sono quelli di natura psicologica da parte di chi lo esercita, privato da quella capacità di “influenzare o avere un impatto sul mondo” che è parte integrante della natura umana e può causare depressione e senso d’impotenza. Graeber allarga il campo e diventa particolarmente efficace quando sostiene che questi lavoro contraddicono i principi del capitalismo, ovvero quelli di massimizzare i ricavi e riducendo i costi, spingendo – secondo l’antropologo – l’economia verso una nuova forma di feudalesimo.

Più il libro va avanti e più la critica dell’autore si fa ampia e profonda: Graeber infatti sostiene che i bullshit jobs abbiano soprattutto una valenza politica, in quanto la classe dirigente li usa per gestire e controllare le classi medie e medio-basse.

Non tutte le tesi di David Grauber sono condivisibili, sicuramente aprono delle discussioni, tuttavia rivelano certe crepe e inefficienze del sistema capitalistico e neoliberiste che per loro stessa definizione dovrebbero avere la caratteristica dell’efficienza. “Bullshit Jobs” solleva il problema, si prefigge l’obiettivo di dare un rinnovato valore e dignità al lavoro e forse, leggendolo, molte persone si renderanno conto di fare lavori del cavolo. Il libro non offre soluzioni o ricette pratiche per cambiare le cose, tuttavia solo la consapevolezza o la scoperta di fare dei “lavori del cavolo”, socialmente accettati, ma che provocano un profondo danno morale, spirituale ed economico alla società, rappresenta già un passo avanti.

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