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Innovazione e Sostenibilità

Città a misura d’uomo: un quarto d’ora solo ti vorrei …

Claudio Gagliardini
Di Claudio Gagliardini
Nato a Roma nel 1970, manca per pochi decenni la natività digitale, ma recupera con insospettabile freschezza alla fine degli anni ‘90 dopo numerose esperienze in ambito turistico-ricettivo, in giro per l’Italia. Il demone del web s’insinua in lui agli esordi della Rete nel Bel Paese, fino a diventare una professione, con l’avvento dei media sociali e del web 2.0, che integra l’impegno sino a quel momento speso in comunicazione e marketing per-digitali. Oggi è consulente, formatore e relatore in marketing e comunicazione, con particolare specializzazione sui social media e sulle opportunità offerte dalla Rete. Socio e co-fondatore di seidigitale.com [...]
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Pubblicato il 13.09.2021 alle 9:48

Spesso si parafrasa il nome di una canzone, di un libro o di un film per mere esigenze di titolo; per creare un gioco di parole, un’assonanza, un “effetto speciale” che induca il potenziale lettore ad andare oltre e leggere il pezzo, in cui quasi sempre c’è poi dentro qualcosa che non ha alcuna attinenza.

Spesso è così che va, ma non stavolta, perché “Un’ora sola ti vorrei” è un classico della musica leggera nazionale che in qualche misura si lega, se non al tema, almeno al contesto o ad una sua possibile chiave di lettura. La canzone fu scritta nel 1938 e cantata da Nuccia Natali, ma al debutto fu considerata dal regime fascista “irriverente”, in quanto si ritenne che il ritornello “un’ora sola ti vorrei per dirti quello che non sai” fosse rivolto a Benito Mussolini, il Duce. Allora l’Italia era nel sedicesimo anno dell’era fascista, un periodo di enormi stravolgimenti destinato ad essere spazzato via dalla storia in meno di un lustro, ma in quel momento all’apice. Pur senza aver ancora visto l’orrore della II Guerra Mondiale, molti italiani erano già proiettati al dopo; un dopo di cui non si conosceva altro che il profumo di speranza e di rinascita, ma che molti stavano già progettando. Proprio come sta accadendo ora, in tutto il mondo.

Così come il fascismo sconvolse e cambiò profondamente l’Italia degli Anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso, per poi innescare un ulteriore e ancora più eclatante cambiamento, così il covid-19 ha riscritto le regole del nostro vivere per molti mesi, con restrizioni che molti hanno paragonato a quelle dei periodi bellici, e ci sta traghettando verso un nuovo modello di città, di società, di lavoro e di civiltà.

Tra le molte proposte che riguardano le città post pandemiche, quella avanzata dall’urbanista Carlos Moreno nel suo “Urban life and proximity at the time of covid-19” pone appunto un preciso riferimento temporale: 15 minuti, anziché i 60 della canzone, ma in quel quarto d’ora Moreno non immagina l’interazione tra due persone, ma il tempo limite per qualsiasi attività in una moderna e vivibile città. 

La città dei 15 minuti di Moreno

Che quello dell’urbanista franco-colombiano non sia soltanto un esercizio di stile ma un paradigma concreto e applicabile lo dimostra anche la disponibilità della sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, a far riferimento a questo modello nel suo progetto di riorganizzazione urbana della capitale transalpina.
Nel documento “Paris ville du quart d’heure, ou le pari de la proximité” si legge: “Parigi vuole diventare la città della prossimità, dove puoi trovare tutto ciò di cui hai bisogno entro quindici minuti da casa. Un obiettivo che richiede di ripensare l’uso di un certo numero di strutture esistenti, come i cortili delle scuole, ed immaginarne di nuove, come i chioschi cittadini o i ‘social sport club’”.

L’idea di partenza di Moreno è semplice: il secolo appena iniziato non potrà essere ricordato come quello delle megalopoli disfunzionali; “città vive, imperfette, incomplete e fragili”. Città-mondo che sono figlie dell’era del petrolio e che portano con sé enormi problemi e limiti, costringendo i loro cittadini ad estenuanti spostamenti e ad una qualità della vita che spesso diventa inaccettabile.

In molte grandi città, dove i trasporti pubblici sono insufficienti o addirittura inefficaci, spostarsi nel traffico per molti minuti è la regola per milioni di persone, che invece dovrebbero poter disporre del proprio tempo e vivere liberamente le proprie giornate.
Quello di Moreno è un invito a riprogettare le città sul paradigma dell’iper-prossimità, così da garantire di poter “abitare, lavorare, approvvigionarsi, curarsi, educarsi, fiorire” spostandosi tra un luogo e l’altro nell’arco di un quarto d’ora, anziché di ore. Un paradigma e una transizione che implica la più completa armonizzazione delle componenti ecologiche, sociali ed economiche. 

Verso un vero rinascimento del modello città

Quelle che dovremo progettare saranno dunque “città policentriche, interconnesse, connesse, riconciliate con la natura, più lente, rilassate e dotate di veri e funzionali spazi pubblici”, facilmente raggiungibili a piedi o in bicicletta e in cui ci sia spazio per la componente vegetale e per la biodiversità.

Un nuovo paradigma che consentirà di abbandonare il vecchio modello ad alta “densità minerale” per rimpiazzarlo con uno ad alta “densità biologica”, immersa nel verde e cosparsa di “connettori verdi”, capaci di catturare l’inquinamento e restituire ossigeno, riducendo anche gli “spostamenti di fuga” verso la natura.

Moreno si spinge ancora più in là; oltre a ripensare la città dovremo riprogettare anche il tempo della vita, oggi per lo più speso nel lavoro e negli impegni e fortemente ridotto dagli spostamenti, dalla ricerca di parcheggio, dalle lunghe attese dei mezzi pubblici e dagli effetti nefasti della sovrappopolazione. Ma dovremo anche ripensare il digitale, che oltre ad abilitare tecnologie e a fornire dati dovrà tener conto della assoluta centralità della qualità della vita di cittadini e integrarsi con questo nuovo modello, anziché limitarsi a migliorare ciò che già conosciamo.

Un’infinita sfera senza centro

Nel definire la sua “città dei 15 minuti” Moreno parafrasa Pascal e fa riferimento a “una sfera infinita il cui centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte“. Una sfera all’interno della quale non c’è spazio per luoghi che espletano una sola funzione e che restano aperti soltanto per qualche ora al giorno, costringendo i residenti del quartiere in cui sono immersi a fare chilometri per svolgere, altrove, attività che potrebbero tranquillamente essere ospitate in quegli stessi luoghi. Allo stesso modo, le strade, le piazze e tutti gli altri luoghi pubblici potrebbero assumere ruoli e funzioni nuove, trasformandosi continuamente e ospitando attività che prima erano relegate in spazi ad uso esclusivo, che nel tempo perdono comunque la loro funzionalità e necessitano di continui riadattamenti e restauri. 

Una città in cui quello che serve, che piace, che stimola a fare o a partecipare è sotto casa, letteralmente, e che non richiede grandi spostamenti e pianificazione ossessiva, perché oltretutto il digitale ci aiuta a veicolare novità, cambiamenti e iniziative che in passato richiedevano impegnative campagne di informazione, mentre oggi qualsiasi attività è gestibile nell’arco di pochi click.

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