È tempo di dire di no alla «dittatura dell'engagement»
Qualcuno mi dice, “Mostra ai bambini un gioco”.
Io insegno loro a scommettere lanciando i dadi, e questo qualcuno insiste:
“Non intendevo quel gioco”.
Ludwig Wittgenstein
Ci sono dei trend che diventano così trendy che, alla fine, un po’ stufano e, soprattutto, cominciano a perdere il loro senso. Molte aziende, più che correttamente, si attrezzano e lavorano per la trasformazione digitale, coerentemente con un contesto che cambia. Dentro questo più che legittimo sforzo, tuttavia, ci sono anche delle forzature e, in particolare, è il caso di una parola che ha francamente un po’ scassato i cabbasisi.
Vi è mai capitato di partecipare a riunioni in cui non si parla dell’oggetto della riunione, dei contenuti da condividere, dell’operatività di un servizio ma, quasi subito, qualcuno alza la mano e dice:
“Vogliamo ovviamente mettere la gamification e un sistema di punti, classifica e badges per incentivare l’utente all’uso”
“Prima di tutto, serve la gamification”
“A mio avviso, un po’ di gamification non guasterebbe”
?
Ecco, è giunto il momento di scrivere con forza che ci si è fatti prendere un po’ troppo dalla dittatura dell’engagement, a volte perdendo di vista la sostanza di un serio piano aziendale:
Se c’è un problema e una domanda da soddisfare bisogna trovare il miglior modo per risolvere il problema e per intercettare quella domanda.
In nessun luogo è scritto che si debba usare necessariamente la leva ludica come molla per ottenere un risultato.
In realtà, esiste già una letteratura più che matura al riguardo: in particolare, l’italiano Fabio Viola, tra i padri del fortunatissimo videogioco Father and Son, che ha reso celebre in tutto il mondo il Museo Archeologico Nazionale di Napoli con più di 3 milioni di download della app in tutto il mondo, è un esempio validissimo di come si possa agire con intelligenza sulla leva ludica e dell’intrattenimento per ottenere uno scopo di business che si traduca in migliori risultati operativi.
Il gioco è utile se e solo se è funzionale allo scopo che si vuole raggiungere: può sembrare una banalità, ma è bene ripetere questo principio come un mantra.
Fabio è autore di un libro utilissimo, L’arte del coinvolgimento, e non a caso il titolo non contiene né l’abusatissima gamification né l’altro idolo totemico, engagement.
Forse, è bene riportare alla memoria un caso interessante: quello ormai antidiluviano di Foursquare.
L’azienda, infatti, a partire dalla sua nascita nel 2009, raccolse centinaia di milioni di dollari dai venture capital, con tassi di crescita esponenziali del numero degli utenti nel corso degli anni, fino a raggiungere una comunità di 45 milioni di utenti. Fu una degli early adapter della gamification, nel 2010, con l’obiettivo di costruire un database mondiale, e aggiornato in real-time, di locali, ristoranti e molti altri servizi al consumo: da subito quello che era un vantaggio si rivelò però anche un punto debole. L’enorme quantità di dati sulle attività commerciali di tutto il mondo, in stile TripAdvisor; veniva infatti sporcata proprio dal gioco dopato del check in, per cui ogni utente ambiva a diventare sindaco di un pub a prescindere dal giudizio che aveva sullo stesso.
Effettivamente, il numero di utenti crebbe come abbiamo detto fino a raggiungere quasi la popolazione dell’intera Spagna, con tassi di crescita del 1600% su base annua.
Eppure…
Eppure, il numero di check in giornalieri si ridusse drasticamente nel tempo e la app finì presto nel dimenticatoio di chi la aveva installata.
Il rischio è, ahimè, che a volte il meccanismo ludico funzioni pure troppo bene: se le persone perdono di vista l’obiettivo, che in teoria dovrebbe comunque essere la condivisione nella propria cerchia di amici dei luoghi che si frequentano, e finiscono con l’attivare il check in solo per ricevere un badge o accumulare punti, il potenzialmente ricchissimo database di Foursquare diventa in realtà estremamente distorto, molto biased insomma, con poche se non pochissime possibilità di vendere queste informazioni agli investitori che, alla fine, sono i clienti ultimi di Foursquare.
Non è un caso che il CEO Dennis Crowley, consapevole della disfatta, provvide infine allo split della compagnia in due app distinte, Swarm e Foursquare. Quest’ultima si è evoluta in una community il cui scopo è trovare nuovi locali e socializzare la scoperta con i propri amici, con buona pace di sindaco e giunta comunale.
Il fatto, per ripeterci, è che la gamification è efficace, e l’engagement si raggiunge, quando entrambi funzionano e, soprattutto, servono. Quando, insomma, individuata la leva motivazionale che spinge l’utente a utilizzare un dato servizio o prodotto, si riesce a combinare la stessa leva con gli obiettivi di business dell’azienda.
Non basta avere un’idea brillante e, a volte, non è sufficiente neppure costruire una comunità di utenti che viralizzano un servizio. Se i milioni di utenti non si traducono, alla fine, nel raggiungimento del risultato economico o sociale che ci si è prefissi in partenza, allora è meglio cercare un altro incentivo, non avendo paura di dire no alla dittatura dell’engagement.