Il benessere inizia «oltre il PIL»
Ormai è passato più di mezzo secolo. Era il marzo del 1968 quando Bob Kennedy davanti agli studenti dell’Università del Kansas tenne un discorso destinato a passare alla storia, che oggi chiunque può facilmente leggere o addirittura riascoltare. A un certo punto Kennedy disse che «…misura tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta». Di cosa parlava? Del PIL, il Prodotto Interno Lordo, quel numerino che esprime il valore dei beni e servizi prodotti in un determinato spazio (uno Stato) e in un determinato tempo (per esempio un anno).
Da ben prima del 1968 al PIL era stato assegnato il compito di stabilire se uno Stato, o i suoi abitanti, stanno bene o male. Se stanno “crescendo” o no. E se lo stanno facendo più o meno di altri, in altri Stati. Ma il PIL non è fatto per esprimere il livello delle condizioni di vita complessive di un popolo. Il suo stesso inventore, l’economista Simon Kuznets insignito del premio Nobel nel 1971, aveva avvertito già negli anni ’30 del secolo scorso che non era prudente affidarsi al Pil per spiegare il benessere di una nazione.
Fatto sta che il Pil ha continuato a dominare la scena, al punto che si è parlato di dittatura del PIL. Che ancora prosegue, perché cinquant’anni non sono bastati per detronizzare il PIL, in base al quale si continuano a decidere politiche, spese, tagli, investimenti. Che hanno poi profonde ricadute sulla vita di ognuno.
Grazie però a un poderoso lavoro scientifico e accademico, le critiche al PIL sono state sempre più numerose e motivate, trovando crescente e diffuso consenso. Tant’è che oggi quanto meno a livello di narrazione sono ormai in pochi a credere che PIL faccia rima con benessere.
Ciò non significa che il Pil sia da buttare, ma che sia necessario affiancarlo e completarlo con altri indicatori: indicatori “alternativi”, “oltre il PIL”, “di benessere”. Nel tempo sono stati sviluppati una quantità di questi indicatori, fra i quali lo Human Development Index, il Social Progress Index, il Better Life Index, il FIL (Felicità interna lorda) calcolato nel piccolo Stato asiatico del Bhutan. Si è creato un intero nuovo campo di studi detto dell’economia del benessere (well being economy).
Ma affinché tutto questo possa realmente “contaminare” nel senso della sostenibilità il modello economico dominante, c’è bisogno che indicatori come quelli di cui si diceva entrino nella cassetta degli attrezzi, diventino cioè centrali per l’elaborazione di strategie e politiche da parte dei decisori pubblici. E a questo riguardo l’Italia rappresenta un punto di riferimento internazionale.
A partire dal 2016 siamo stati infatti il primo Paese d’Europa e del G7 a introdurre nella programmazione economica nazionale indicatori di benessere derivanti dal BES, indicatore di Benessere Equo e Sostenibile sviluppato da Istat e Cnel. Un indicatore che tiene conto di tutta una serie di dimensioni non solo economiche ma anche sociali e ambientali: ad esempio la salute, la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, le relazioni sociali, il patrimonio culturale, l’ambiente, il paesaggio.
Quella restituita dal BES è una fotografia molto più ampia e complessa di quella, monotematica e in un certo senso arida, offerta dal Pil. Per capirlo basta prendere l’ultimo Rapporto BES pubblicato a fine 2018, con le sue luci e le sue ombre: emerge ad esempio la grande attenzione degli italiani per la salutee la sofferenza nelle relazioni sociali, si parla di una raccolta differenziata in miglioramento ma di una qualità dell’aria in peggioramento, delle donne che sono in media un po’ meno soddisfatte della propria vita rispetto agli uomini, del fatto che sono in aumento coloro che hanno fiducia di poter stare meglio nei prossimi anni.
È innegabile che le questioni legate al benessere, alla qualità della vita, per non parlare dalla felicità, sono e resteranno molto difficili già da definire, figuriamoci da misurare. Ma una cosa è certa: il PIL ha già dato, e da tempo, tutto quello che aveva da dare per aiutarci a comprendere la realtà, la società, e cosa c’è da fare per provare a migliorarla. È ora che ceda il passo, che se non da parte si faccia almeno di lato. È ora di andare oltre il PIL.