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Innovazione e Sostenibilità

Il lato oscuro della moda nel nuovo doc di Patagonia

Simone Cosimi
Di Simone Cosimi
Simone Cosimi è giornalista professionista, collabora con numerose testate nazionali fra cui Italian Tech, La Repubblica, D, DLui, Wired, VanityFair.it, Esquire, StartupItalia, Oggi e Radiotelevisione Svizzera. Segue diversi ambiti fra cui tecnologia, innovazione, cultura, politica, esteri e territori di confine, spingendo verso un approccio multidisciplinare. Già redattore del mensile culturale Inside Art, per cui ha curato cataloghi d’arte e pubblicazioni come il trimestrale Sofà, ha lavorato in passato, fra gli altri, per Rockstar, DNews, Excite, Style.it e molte altre testate. Speaker, moderatore e saggista, è autore con Alberto Rossetti di “Nasci, cresci e posta. I social network sono pieni di bambini: [...]
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Pubblicato il 19.07.2022 alle 12:32

“Se non cambiamo nulla, entro il 2050 l’industria dell’abbigliamento peserà per il 25% sullo stock globale di anidride carbonica” dice l’avvocata e attivista newyorkese Maxine Bédat all’inizio del nuovo documentario prodotto da Patagonia (disponibile su YouTube). Già al momento quel comparto pesa quanto i consumi di Germania, Francia e Gran Bretagna messe insieme. Le fa eco la reporter e scrittrice Kendra Pierre-Louis che ci ricorda come il 50% delle materie prime impiegate nella moda, in particolare nel cosiddetto fast fashion, è sostanzialmente plastica. Per la precisione, una qualche forma di poliestere. Nel nostro armadio c’è dunque un “mostro”, da cui il titolo del film diretto da Nicole Gormley e Kathryn Francis: quel mostro è il labirinto di legami che stringe l’abbigliamento all’uso delle fonti fossili e ne amplifica il peso sugli ecosistemi. 

La moda è il piano B dei grandi inquinatori del pianeta

Per giunta, da quello che esce dal documentario di 27 minuti prodotto dall’azienda fondata da Yvon Chouinard nel 1973, con l’elettrificazione dei trasporti privati e la transizione ecologica la plastica in tutte le sue incarnazioni “sta diventando il piano B” dei colossi dell’energie fossili. Cosa significa? Che se riusciremo a tagliare le emissioni sul primo fronte rischiamo seriamente di ritrovarcene altrettante nel comparto petrolchimico destinato ai sottoprodotti plastici per usi terzi rispetto ai combustibili, fra cui appunto l’impiego già massiccio nell’abbigliamento. 

L’esplosione delle fibre sintetiche alimentata dal fast fashion

Non è un caso che nel giro di due generazioni, dall’inizio degli anni Duemila, le fibre sintetiche hanno surclassato quelle naturali come materie prime nel business della moda. Le ragioni? Proprio il fast fashion: un modello di business dell’abbigliamento strettamente intrecciato alla economicità e disponibilità delle fibre sintetiche. E la situazione sta anche peggiorando con player sempre più aggressivi, che propongono capi sempre più economici e di qualità pessima, dalla vita evidentemente più breve: “Alle persone viene detto che possono acquistare più abiti e spendere meno e che devono farlo per essere sempre al passo con lo stile di quel momento dell’anno” spiega Pierre-Louis. Non a caso, buttiamo oltre 36 chili di abiti all’anno per persona e solo una piccola parte finisce nei circuiti di seconda mano. Senza dimenticare che il riciclo dei tessuti non è semplice come quello di altri prodotti: è solo un pezzo della soluzione, racconta Pasha Whitmire, responsabile dello sviluppo di nuovi tessuti e materiali in Patagonia.

La differenza sta anche in come si usano le materie prime plastiche

Ci sono più di 8.3 miliardi di tonnellate di plastica nel mondo, e continuano a crescere. Di queste, 6.3 miliardi di tonnellate è costituito da rifiuti. Esiste poi una differenza sostanziale dell’impiego della plastica: Patagonia, ad esempio, adopera solo poliestere riciclato, proveniente da bottiglie di plastica, nel tentativo di allungare la vita ai prodotti. Molti brand, invece, usano poliestere vergine da petrolio per produrre sempre più abiti, sempre più economici e a costi sempre più bassi. Per alimentare appunto, come detto, il fast fashion che trova poi la sua espressione attraverso piattaforme di e-commerce spesso rivolte espressamente ai più giovani che lavorano in perdita puntando solo sui volumi. Insomma, se le materie plastiche sono essenziali per produrre capi di abbigliamento durevoli e ad alte prestazioni, stanno anche accelerando la crisi ambientale: dai combustibili fossili, come il poliestere, utilizzati per produrre i materiali, all’inquinamento da plastica che si accumula una volta che gli indumenti sono stati gettati fino al senso stesso di una supply chain di questo genere.

Il documentario è breve, utile e godibile: attraverso gli occhi di un avvocato – Bédat è autrice, fra l’altro, del volume “Il lato oscuro della moda. Viaggio negli abusi ambientali (e non solo) del fast fashion” appena pubblicato da Post Editori – di una giornalista esperta di clima e di uno stilista di Patagonia, The Monster in Our Closet (Il mostro nel nostro armadio) accende una luce – a cui ovviamente servirebbe un ulteriore approfondimento, ma in 27 minuti il risultato è comunque significativo – sul gigantesco pericolo costituito dall’intero ciclo della moda a basso prezzo di cui riempiamo le nostre case e che spesso si conclude nelle discariche dell’africa sub-sahariana, non diversamente da quanto accade con le automobili o i dispositivi elettronici. E su ciò che tutti noi possiamo fare, a livello individuale, aziendale e governativo, per creare il cambiamento di cui il nostro pianeta ha bisogno: spingere per l’approvazione di regole più stringenti nei confronti delle aziende che toccano ogni aspetto della filiera. L’origine delle materie prime, l’impiego di prodotti riciclati o meno, le strategie di riciclo e reimpiego, la certificazione dei fornitori e così via

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