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Empowerment

Contro le vacanze: quando riposare d’estate diventa più stressante di lavorare

Paolo Armelli
Di Paolo Armelli
Nato nel 1988, dopo una laurea Lettere Moderne con una specializzazione in traduzione letteraria, Paolo Armelli si dedica alla comunicazione occupandosi di content marketing e social media management. Nel frattempo scrive per alcune testate online e offline come Vogue, Wired.it, Rivista Studio, Gazzetta.it, Link. Si occupa principalmente di editoria, letteratura, televisione, cultura pop e tendenze. Pensa che le parole siano importanti e che usarle bene sia un segno di rispetto per l’altro, per questo studia come la lingua evolve per adattarsi alla diversità, all’inclusività e all’integrazione. Per un paio di anni ha diretto una rivista online di soli autori [...]
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Pubblicato il 23.08.2018 alle 15:37

L’estate avanza: le vacanze, per molti, sono state la meritata e tanto attesa ricompensa a tanti mesi di fatica e lavoro. Ma siamo davvero sicuri che le vacanze – almeno così come sono impostate da decenni – ci servano effettivamente? Il Time ha dedicato al tema addirittura due copertine, solo apparentemente contradditorie, nel 2010 e 2015: Il caso contro le vacanze estive e poi Chi ha ucciso le vacanze estive?. Mentre la prima cover metteva il focus sugli studenti, che si dice perdano in tre mesi di vacanze continuative conoscenze equivalenti a un mese intero di studio, la seconda rifletteva sui lavoratori (americani): molti in questi anni rinunciano sempre più a partire, o riducono la durata dei viaggi, nel timore di una ripresa troppo dura al loro rientro (le montagne di mail, l’attenzione diminuita, i ricordi che distraggono ecc.).
In effetti, chi di noi non ha mai pronunciato l’assurda frase “Mi serve una vacanza per riprendermi da questa vacanza”? Sembra un paradosso, e sicuramente ci sono problemi più gravi da riequilibrare nell’esistenza di ognuno, ma la gestione del proprio tempo libero è un tema che è sempre più cruciale nella nostra società contemporanea. Il riposo, in effetti, è una chimera sempre più inafferrabile: diversi studi dimostrano che dormiamo sempre di meno, come fare dunque a sfruttare i tempi che tradizionalmente sarebbero dedicati al recupero delle energie? Non imbarcandoci in vacanze che, appunto, risultano alla fin fine più impegnative delle nostre stesse occupazioni.
Prendiamo voli intercontinentali con scali di ore, progettiamo partenze intelligenti a orari improbabili per saltare traffico che comunque incontreremo, passiamo ore su Tripadvisor a prenotare hotel e ristoranti, cerchiamo le ultime offerte scontate sulle compagnie aeree e sui treni, investiamo forze (e soldi) in gite, visite, scarpinate, ci mettiamo in coda per qualsiasi cosa in spiagge gremite, festival strabordanti, città turistiche affollatissime, piscine tappezzate di esseri umani. Per non parlare dell’impegno culturale: le settimane estive sono quelle in cui ci ripromettiamo di recuperare libri, film, serie, mostre e concerti che non abbiamo avuto la costanza o la forza di fruire nei mesi lavorativi, saturando e alla fin fine programmando ogni minuto libero.
Sia chiaro, questo è chiaramente un first world problem bello e finito: chi non ha il diritto o la possibilità di un briciolo di ferie non si metterebbe mai a discutere la bontà di questo mezzo di recupero. Poi, per molte persone, magari più svantaggiate (anziani, studenti, persone con reddito più basso o di zone più isolate), l’estate è sinonimo esattamente del contrario: della noia, dell’inattività, dell’assenza assoluta di qualsiasi tipo di proposta culturale, sportiva, ricreativa. Eppure non qui si sta ipotizzando a una sua abolizione: oltre a essere un diritto giusto, equo e insindacabile, l’accesso alle vacanze è dimostrato porti efficaci benefici a livello fisico e psicologico a qualsiasi lavoratore, abbattendo l’eventualità di stress e aumentando la produttività sul lungo periodo. Le ferie sono sacrosante e necessarie, dunque, ma non andrebbero in qualche modo ripensate?
Semplificando estremamente, si può dire che l’associazione dell’estate con il concetto di vacanze e libertà è legato a un tipo di società, quella rurale, stagionale e agricola, ormai ampiamente tramontata. Non solo i cicli produttivi e i picchi di lavoro si sono parcellizzati, smaterializzati e sono esplosi, ma anche un certo tipo di idealizzazione culturale – quella ad esempio dei Paesi mediterranei e della loro celebrazione dell’estate – non ha più ragione d’essere in un mondo globalizzato e interattivo, in cui ogni luogo e ogni attività sono sempre a portata di mano, in qualsivoglia periodo dell’anno. Perché dunque concentrare le nostre aspettative di relax e recupero nelle settimane in cui chiunque fa altrettanto, rendendo tutto più faticoso e meno soddisfacente?
Il concetto di vacanza andrebbe semplicemente modificato. Ritornando appunto all’esempio degli studenti, una pausa estiva troppo prolungata rende più difficile il rientro scolastico e anzi in generale rallenta il ciclo d’apprendimento. Lo stesso vale per chi lavora: perché non pensare a pause più concentrate ma più frequenti durante l’anno, riuscendo a fare veramente quello che si vuole fare, senza la calca, la ressa e l’ansia da presentazione? Come qualsiasi altra cosa che riguarda l’organizzazione della nostra vita, le vacanze estive sono un costrutto culturale che ha sicuramente le sue motivazioni climatiche e stagionali, ma che forse è diventato inefficace in un mondo in cui il lavoro si fonde sempre più alla frenesia della vita. E, provocatoriamente, se anche le vacanze devono essere frenetiche, la prospettiva di tornare al lavoro non è poi così male.

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