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Empowerment

Great Resignation: siamo davvero destinati a lasciare il nostro lavoro?

Micaela Terzi
Di Micaela Terzi
Business Coach. Ha fondato 2 start-up specializzate nello sviluppo di servizi per Smart City; nel 2015 ha deciso di dedicarsi esclusivamente alla consulenza e al coaching. Affianca professionisti e aziende che vogliono sviluppare il loro mindset per migliorare la loro efficacia e far crescere il loro business. Docente e formatrice, è esperta di Intelligenza Emotiva (certificata Six Seconds) e Designing Your Life Certified Coach.
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Pubblicato il 14.04.2022 alle 9:08

Il termine Great Resignation o Grandi Dimissioni si riferisce a una tendenza iniziata nel 2020 negli Stati Uniti dove, a seguito della pandemia mondiale, molte persone hanno lasciato volontariamente il loro lavoro per cercare un migliore work-life balance. Ormai questo fenomeno è giunto anche in Europa e in Italia, ma significa che saremo destinati tutti a licenziarci?

Sicuramente una sempre maggiore attenzione al proprio benessere sta convincendo moltissime persone a riconsiderare il modo in cui hanno visto finora il lavoro. Secondo la ricerca Employer brand research effettuata da Randstad, le scelte dei lavoratori sono sempre più guidata dalla ricerca del benessere e dell’equilibrio tra vita privata e professione. Carriera e retribuzione non sono più centrali, ma si è imposto un nuovo paradigma che mette al primo posto la qualità della vita e la salute psico-fisica.

Secondo uno studio McKinsey il 40% dei lavoratori a livello mondiale è intenzionato a cambiare lavoro nei prossimi mesi, e nel nostro Paese i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dicono che fra aprile e giugno 2021 quasi mezzo milione di persone ha dato le dimissioni. Le cessazioni volontarie dei rapporti di lavoro nel secondo trimestre dello scorso anno sono arrivate a quota 484 mila. Infine l’Associazione Italiana Direzione Personale parla di dimissioni volontarie tra i giovani che nel nostro Paese toccano il 60% delle aziende.

Cosa succederà in futuro? Il sondaggio condotto da Microsoft su 30 mila lavoratori nel mondo ci dice che il 41% sta pensando di dare le dimissioni o di cambiare professione.

Life Design: come il Design Thinking può aiutarci a trovare il lavoro giusto

Il Life Design è un metodo sviluppato a Stanford da Bill Burnett e Dave Evans per progettare una vita appagante, dove salute e benessere, relazioni, passioni e anche lavoro sono bilanciati e concorrono a renderci felici. Burnett e Evans hanno raccontato come il Design Thinking può essere applicato alla progettazione della propria vita e del proprio lavoro nel libro Design Your Life, a cui è poi seguito Designing your new work life. 

Utilizzare gli strumenti e le competenze dei designer per realizzarsi nella vita e nel lavoro richiede un mindset orientato alla curiosità e all’azione, che consente di produrre diversi “prototipi” da sperimentare per arrivare alla progettazione del proprio equilibrio perfetto. Secondo Burnett e Evans “i designer costruiscono la loro strada in modo creativo. Si fanno venire delle idee su come potrebbe essere il futuro, poi fanno dei prototipi per imparare di più su come questi futuri potrebbero effettivamente diventare. Nessuno conosce il futuro, quindi non si può pensare di arrivarci – bisogna costruirlo. E lo facciamo rispondendo a domande interessanti attraverso la prototipazione, creando conversazioni ed esperienze che esplorano la nostra curiosità sulla vita”.

Nel loro secondo libro, dedicato interamente al lavoro, affrontano il tema della pandemia e della Great Resignation, attraverso un approccio che potrebbe stupire. Il loro slogan, rispetto alla questione delle dimissioni è infatti “Don’t Resign, Re-Design!”. Che significa: prima di dimetterti prova a capire se puoi ri-disegnare la tua posizione e il tuo ruolo, attraverso il Design Thinking.

Naturalmente non si tratta di un imperativo: ci sono situazioni in cui è necessario fuggire il più lontano possibile dal posto di lavoro, se non vengono rispettati certi standard o se si è vittime di mobbing. Ma in tutti gli altri casi l’invito è provare ad avere un approccio creativo.

Un primo esercizio da fare per capire come ri-progettare la propria carriera, senza dare per forza le dimissioni è quello di tenere un diario per capire che cosa rende un lavoro un buon lavoro. Se fino a poco tempo fa eravamo felici in azienda e ora non lo siamo più, dovremmo prima capire cosa è cambiato, e provare a vedere se ci sono dei piccoli interventi che possono modificare la nostra percezione. Le domande da farsi, ogni giorno, sono:

  • Che cosa ho imparato oggi?
  • Che cosa ho iniziato?
  • Chi ho aiutato?

Si tratta di un processo di osservazione del proprio lavoro attraverso la registrazione di ciò che succede giorno dopo giorno per capire che cosa sta veramente accadendo e quali sono le cose che consideriamo più importanti e che desideriamo dalla nostra professione.

La domanda “Cosa ho imparato” serve per annotare piccole e grandi aggiunte alla propria conoscenza e competenza. Si può trattare di un nuovo processo o di una nuova procedura, oppure di imparare qualcosa su un collega di lavoro. Non deve essere un’analisi esclusivamente delle conoscenze “tecniche” acquisite, ma di tutto ciò che si è imparato durante la giornata, per se stessi e sugli altri.

“Cosa ho iniziato” ha a che fare con la predisposizione dei designer all’azione. Ogni giorno al lavoro dovresti creare qualcosa, iniziare cose nuove (almeno la maggior parte del tempo). Quando ti prendi la responsabilità di agire, di effettuare un cambiamento, soddisfi un bisogno innato dell’essere umano e acquisisci maggiore controllo. Può trattarsi di qualsiasi cosa: creare un file excel con codici colore per identificare le celle più importanti, oppure pulire la zona caffè dell’ufficio dopo la pausa. Fissarsi l’obiettivo di iniziare qualcosa di nuovo al lavoro almeno una volta alla settimana agisce sulla nostra motivazione e ci rende più soddisfatti.

La domanda “Chi ho aiutato” ti permette di allenare una delle 10 chiavi per una vita più felice: dare. Fare qualcosa per gli altri ha infatti una correlazione molto forte con l’avere una vita più appagante. Prendere nota, ogni giorno o almeno una volta alla settimana, di qualcosa che abbiamo fatto al servizio delle persone con cui lavoriamo ci aiuta a ritrovare la motivazione e soddisfa il nostro bisogno innato di avere relazioni sane.

Il suggerimento è quello di provare a tenere il proprio “Good Work Journal” per almeno un mese. Quando si incomincia a notare che si stanno imparando cose nuove, avviando cambiamenti utili all’interno dell’azienda, e aiutando gli altri, anche la propria soddisfazione aumenta. Certo, questo non è sufficiente, e le imprese stesse hanno una grandissima responsabilità nel rendere migliore il posto di lavoro e nel trattenere i talenti. Sicuramente però questo diario può essere il primo passo per capire se la nostra situazione si può in qualche modo modificare. Se invece scopriamo che alcune nostre esigenze fondamentali non vengono soddisfatte e che neanche il nostro impegno a imparare, agire e fare qualcosa per gli altri ci rende felici, questo diario potrebbe diventare l’evidenza che è giunto il momento di cambiare.

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