Il valore delle esperienze trasformative nella nostra vita (e al lavoro)
Chi ha avuto a che fare con un processo di trasformazione organizzativa – a qualunque livello – sa quanto complesso sia orchestrarlo e quanto difficile possa essere cambiare la cultura di un’organizzazione, trasformare il modo di lavorare delle persone e quanto facile sia fallire in questo percorso.
La medesima logica si applica a qualunque tipo di cambiamento che richiede uno sforzo per essere compiuto e il cui successo è – come sappiamo molto bene – inversamente proporzionale al tempo richiesto ad agirlo.
Quanto è difficile perdere peso? Smettere di fumare? Cambiare la propria visione del mondo? Abbandonare un’abitudine acquisita in anni di gesti ripetuti nel tempo?
Sono però presenti dei casi eccezionali, unici nella vita delle persone che consentono di cambiare radicalmente il proprio sistema valoriale e il proprio agito: le esperienze trasformative. Un concetto molto interessante in cui mi sono imbattuto grazie ad Andrea Gaggioli (Professore ordinario di psicologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) che le illustra molto bene in un suo recente lavoro: https://www.researchgate.net/publication/304170093_Transformative_Experience_Design
Le caratteristiche di questo tipo di esperienza sono tre:
- Rappresentano un cambiamento profondo del modo in cui percepiamo il nostro self-world, il nostro mondo interiore.
- Hanno una dimensione epistemica e personale. Cambia cioè, non solo quello che sappiamo, ma anche il modo attraverso il quale facciamo esperienza di noi stessi. In sostanza la nostra rappresentazione del mondo e delle cose.
- Sono un fenomeno emergente che nasce da dinamiche che si auto-organizzano.
In “The Experience Economy” Pine e Gilmore hanno già ampiamente sottolineato come il driver principale della nostra economia e della nostra vita siano ormai le esperienze e tutti noi abbiamo imparato – a nostre spese – quanto queste siano importanti all’interno dell’ultimo anno, trascorso, per lo più, tra le mura domestiche.
Sono le esperienze, infatti, oggi più di ogni altra cosa, a essere ricercate e inseguite dalle aziende: sono loro che cambiano la nostra visione del mondo, personale e lavorativo.
La letteratura, da Maslow a Miller, da James a C’De Baca, documenta ampiamente quei momenti nella vita di un uomo in cui si creano le condizioni per vivere un’esperienza completamente nuova in grado di cambiare la nostra visione e percezione delle cose. Un momento “a-ha” che ci permette di fare esperienza di sensazioni e di emozioni uniche che rendono la persona in grado immediatamente di comprendere che qualcosa è successo e che qualcosa è cambiato.
Esiste un problema però: per loro stessa caratteristica le esperienze trasformative non posso artefatte e costruite a tavolino, non possono non richiedere una serie di condizioni che coinvolgano in modo profondo il singolo per avvenire. È però possibile costruire le condizioni per cui l’esperienza possa essere… invitata.
Come diceva anche George Bernard Shaw: “gli uomini non sono saggi in proporzione tanto all’esperienza quanto alla loro capacità di fare esperienza.” È una interessante lezione che dovremmo tenere a mente.
Come fare dunque? L’obiettivo non è chiaramente un ripensamento completo di tutte le nostre attività lavorative e non, con al centro l’esperienza, ma come sottolinea anche Gaggioli, il design di esperienze trasformative non deve essere confuso con un’autorealizzazione ingegnerizzata, quanto piuttosto come la capacità di esplorare nuovi possibili mezzi tecnologico per sostenere la tendenza naturale delle persone verso l’autorealizzazione e la trascendenza.
Come sosteneva Donald Norman, in tempi non sospetti: “la tecnologia ci pone di fronte a problemi fondamentali che non possono essere superati basandoci su quanto abbiamo fatto nel passato. Abbiamo bisogno di un approccio più tranquillo, più affidabile, più a misura d’uomo”.