Il valore del tuo marchio? È sancito dalla tua relazione con il cliente
Nel 2004 due professori della Michigan University esperti di strategia aziendale, C.K. Prahalad e Venkat Ramaswamy, dimostravano nel loro brillante saggio “Il futuro della competizione” come le imprese oggi non siano più autonome nel processo di creazione di valore. Emergeva così nella letteratura di marketing il concetto di co-creazione di valore: non sono più il prodotto o il servizio le uniche fonti del valore, bensì la relazione fra brand e clienti.
La co-creazione di valore mette in discussione una classica visione del mercato, inteso come aggregazione di consumatori che sono chiamati ad operare una scelta tra le varie offerte delle imprese. Nel nuovo spazio di co-creazione del valore le aziende avranno un controllo sempre più limitato e parziale sul mercato. In altri termini, potranno facilitare le modalità con cui i consumatori costruiranno le proprie esperienze in relazione ai brand, ma non potranno controllarle in modo assoluto. La sharing economy esemplifica bene questo principio.
Ma tutto questo può riguardare anche il significato più profondo di un brand? L’essenza di un brand è sempre stata considerata appannaggio di chi lo ha creato. La storia di uno scarponcino dimostra che non sempre è così. Mi riferisco a Timberland, azienda americana nata nel 1950 col nome di Abington Shoe Company e acquisita nel 2011 da VF Corporation. Nel 1973 nasceva il famoso scarponcino impermeabile, in grado di riparare i piedi dal freddo e dell’umidità, ideale per camminare nei boschi del New Hampshire. Il mercato apprezzò, e nel 1978 l’azienda assumeva proprio il nome di quelle scarpe.
Sidney Swartz, inventore dello scarponcino e figlio del fondatore Nathan Swartz, non era interessato all’estetica, alla moda, alle tendenze. Con il suo pragmatismo da industriale del New England, era preoccupato solo dalla funzionalità. Ma nei primi anni Ottanta, a molti chilometri di distanza, in Italia, al brand stava accadendo qualcosa di singolare ed imprevisto. Un gruppo di consumatori “metropolitani”, che l’azienda non aveva mai considerato e che nemmeno conosceva, cominciò ad adottare massicciamente il brand come parte di uno stile decisamente riconoscibile: erano i Paninari, subcultura di consumo nata a Milano, espressione di un’ondata di edonismo e disimpegno in reazione ai turbolenti e ideologizzati anni Settanta.
I Paninari non si limitarono ad utilizzare lo scarponcino, ma in qualche misura lo ri-definirono concettualmente. La funzionalità cedeva il primato alla moda, e lo scarponcino di color giallo si integrava perfettamente con il piumino Moncler, i jeans di Armani, la camicia a quadri Naj-Oleari, la cintura in pelle El Charro, la felpa American System. Prodotti e brand di culto nella Milano degli anni Ottanta, segni visibili del legame che univa i membri di quella subcultura.
L’epopea dei Paninari durò poco; già alla fine di quel decennio cominciava a sgretolarsi. Tuttavia, l’avventura “urbana” dello scarponcino non era destinata ad esaurirsi. Negli Stati Uniti, proprio all’inizio degli anni Novanta, la comunità hip hop portava le Timberland alla ribalta della cultura metropolitana. Il management dell’azienda, probabilmente poco attento a quanto era accaduto pochi anni prima in Italia, non aveva avuto il minimo sentore neppure di quel trend americano, che cominciava a farsi impetuoso. A tal proposito è emblematica una dichiarazione al New York Times dell’allora CEO Jeffrey Swartz, nipote del fondatore: “Il brand Timberland viene adottato da un consumatore del tutto estraneo al nostro pubblico di riferimento”. E continuava rimarcando che il brand da lui guidato era basato sulla funzionalità e non sulla moda.
Evidentemente Swartz non amava né l’hip hop né la cultura di cui era espressione. Non la conosceva, e non mostrava di essere interessato a conoscerla. La considerava un fenomeno passeggero. Non nutriva grande stima dei consumatori hip hop, che secondo lui spendevano “allegramente”, mentre il suo brand si rivolgeva a “lavoratori onesti”. L’errore di Swartz non fu tanto quello di non capire il substrato culturale e le motivazioni di acquisto del nuovo e numericamente significativo target metropolitano. Il vero errore fu piuttosto quello di voler decidere in maniera univoca sull’essenza del brand, sul suo significato più profondo, ignorando le sollecitazioni del mercato.
Alla fine degli anni Novanta, la svolta. Il brand cresceva grazie al nuovo target, ma Swartz ancora era alle prese col dilemma tra funzionalità ed estetica. Chiese così a suo padre, Sidney: “Secondo te, cosa direbbe il nonno se proponessimo uno scarponcino rosa?”. E lui gli rispose: “Ti chiederebbe quante paia ne hai vendute”.
La storia di Timberland mostra con chiarezza come le aziende oggi siano sempre più spesso chiamate ad abbandonare il controllo sul significato dei propri brand. La sfida consiste nel costruire l’identità del brand in un processo di collaborazione con i clienti. Un processo di co-creazione di valore che impone alle aziende di sviluppare qualità come umiltà, ascolto, curiosità e reale attenzione nei confronti dei propri consumatori.