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brevetto europeo
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Innovazione e Sostenibilità

Arriva il brevetto europeo. Bello, ma è ora di ripensare le tutele in ambito mondiale e open source!

Manuela Arata
Di Manuela Arata
Fondatrice e Presidente del Festival della Scienza di Genova. Già Direttore Generale dell’Istituto Nazionale per la Fisica della Materia, è stata Technology Transfer Officer al CNR fino al 2013. Esperta nel management dell’innovazione, IPR e creazione d’impresa, docente di Management della Ricerca è Visiting Professor presso l’Università Del Salvador di Buenos Aires e cofondatrice della Shanghai Academy for Scientific Explainers. Componente del Research, Innovation and Science Policy Experts (RISE) High Level Group (HLG), ha svolto vari incarichi come Esperto Indipendente per la Commissione Europea. Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana dal 2005, è stata premiata nel 2013 con la Medaglia d’oro della [...]
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Pubblicato il 03.09.2014 alle 8:46

Dovrebbe finalmente andare a regime tra poco il brevetto europeo, dopo anni di discussioni.
Proprio l’Italia e la Spagna infatti si sono irrigidite per lungo tempo bloccando la trattativa e rivendicando la loro “nazionalità”, dopo che francesi e tedeschi sono riusciti ad imporre che il nuovo brevetto (un unico deposito europeo, quindi più rapido ed economico) debba essere depositato nella lingua originale, in inglese, tedesco e francese.
Questioni di potere in Europa, poco convenienti per i cittadini e per chi è interessato a tutelare la propria opera d’ingegno.
Anche perché ormai è un dato di fatto che l’inglese sia la lingua mondiale, come da decenni avviene nella ricerca scientifica. Potremmo lucidamente prenderne atto tutelando le nostre culture con mezzi, appunto, culturali.
L’economicità del nuovo patent a questo punto è ridotta: un brevetto per essere forte deve essere scritto molto bene, quindi anche tradotto molto bene, il che costa, parecchio.

È il momento buono per pensare al brevetto mondiale, visto che anche la Cina sta passando dal copiare all’inventare, con ingenti investimenti in ricerca

Bizantinismi europei a parte, il problema reale oggi è che con la globalizzazione i brevetti vanno a costare molto di più, perché molto più numerosi sono i Paesi in cui bisogna registrarli. Se fino a dieci anni fa infatti si estendevano le coperture – oltre che all’Europa – a Stati Uniti e Giappone, oggi ci sono Cina, India, Corea, Brasile, Canada, Australia, Sudafrica e tanti altri Paesi che sono in grado di sviluppare tecnologie avanzate e di entrare sul mercato internazionale. Come minimo bisogna coprire 15-16 Paesi, quindi i costi lievitano (finiamo intorno a 50mila euro l’anno), aumentando esponenzialmente man mano che emergono nuovi Paesi.

Bisogna quindi pensare al brevetto mondiale. Questo è il momento buono, visto che per esempio la Cina sta passando dal “copiare” all’”inventare”, con ingenti investimenti in ricerca, e comincia a soffrire perché nell’area intorno (Indonesia, Vietnam, Cambogia, Thailandia) ci sono tanti potenziali copiatori e concorrenti.
Se c’è globalizzazione ci deve essere anche protezione globale. Se ne può discutere a livello di WTO, si può approfondire la questione attraverso WIPO, l’organizzazione mondiale per i diritti di proprietà intellettuale.

Oppure si può ripensare il brevetto, che oggi dà diritto all’inventore di sfruttare industrialmente un’invenzione, ma soprattutto di impedire ad altri di farlo.
Nell’era della Scienza 2.0 e dell’animata discussione sull’opportunità di aprire banche dati e risultati scientifici e farli circolare liberamente per accrescere la cultura mondiale, si comincia a parlare anche di un brevetto che, invece di proibire, si limiti a garantire all’inventore di essere pagato da chi utilizza la sua invenzione.
È utopia o possiamo immaginare l’open source allargata a tutto lo scibile umano? Parliamone.

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