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Innovazione e Sostenibilità

Il Metaverso ha già un problema di molestie: chi dovrà controllare gli abusi nella realtà virtuale?

Simone Cosimi
Di Simone Cosimi
Simone Cosimi è giornalista professionista, collabora con numerose testate nazionali fra cui Italian Tech, La Repubblica, D, DLui, Wired, VanityFair.it, Esquire, StartupItalia, Oggi e Radiotelevisione Svizzera. Segue diversi ambiti fra cui tecnologia, innovazione, cultura, politica, esteri e territori di confine, spingendo verso un approccio multidisciplinare. Già redattore del mensile culturale Inside Art, per cui ha curato cataloghi d’arte e pubblicazioni come il trimestrale Sofà, ha lavorato in passato, fra gli altri, per Rockstar, DNews, Excite, Style.it e molte altre testate. Speaker, moderatore e saggista, è autore con Alberto Rossetti di “Nasci, cresci e posta. I social network sono pieni di bambini: [...]
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Pubblicato il 03.01.2022 alle 9:29

Tempo qualche settimana e Horizon Worlds, il nuovo social network completamente in realtà virtuale di Facebook (anzi, Meta), ha dovuto registrare il primo caso di molestie. Virtuali, ma fino a un certo punto. In quell’universo (anzi, metaverso) immaginato da Mark Zuckerberg, infatti, possono riunirsi fino a venti avatar: si può esplorare il contesto insieme, chiacchierare e trascorrere del tempo e costruire nuovi spazi personalizzati. Sganciandosi da un gruppo e aggregandosi a un altro, oppure procedendo da soli.

Lo scorso 26 novembre passerà appunto alla (brutta) storia per un primo caso di molestie: una beta tester della piattaforma (che al momento è appunto accessibile solo a un ristretto numero di utenti, sarà lanciata il prossimo anno) è stata palpeggiata da uno sconosciuto proprio su Horizon Worlds. Il fatto è stato poi denunciato dalla stessa utente su un gruppo Facebook dedicato proprio ai primi sperimentatori del social VR.

La “Safe Zone” e gli strumenti che non bastano

La risposta di Meta, nello specifico, è stata appropriata per quanto incompleta: l’utente avrebbe infatti dovuto attivare, sentendosi in pericolo, uno strumento battezzato “Safe Zone”. Si tratta di una sorta di bolla protettiva: chi lo attiva di fatto si isola dai mondi che sta esplorando con visore e controller. A quel punto nessuno può toccare l’avatar, parlarci o interagire finché la Safe Zone non viene disattivata. Secondo Vivek Sharma, vicepresidente di Horizon, “l’assolutamente sfortunato” incidente sarà molto utile perché consentirà di rendere quella funzione di blocco “più facile da trovare e da attivare”.

Cosa significa “Safe by design”

Tutto giusto, nell’immediato. Il punto più ampio che quel caso spalanca, come d’altronde molti altri avvenuti in passato sebbene su piattaforme meno evolute, come nei giochi come QuiVr, disponibile da tre anni su Steam, in cui si può giocare con altri sottoforma di avatar e per esempio ci si può rivolgere reciprocamente con la voce, è un altro: che il metaverso dovrà davvero essere “safe by design”, cioè sicuro a partire dalla sua progettazione di fondo. Se nella fase dei vagiti siamo già al punto di dover correre ai ripari aggiungendo strumento su strumento – proprio come accade da anni con i social network – allora vuol dire che i colossi che ci stanno lavorando sono partiti col piede sbagliato.

Il precedente di QuiVr

I casi che ha riguardato il gioco QuiVr già alcuni anni fa, così come quello di Facebook, lasciano infatti strascichi paragonabili a quelli delle molestie subite fisicamente: “Penso che le persone dovrebbero tenere a mente che le molestie sessuali non devono per forza consistere in atti fisici” ha spiegato Jesse Fox, professoressa associata alla Ohio State University ed esperta delle implicazioni sociali della realtà virtuale, alla Mit Technology Review. “Può essere verbale e sì, può essere anche un’esperienza virtuale”. Certo in un mondo in cui è servita una serie tv come “Maid” per sottolineare l’altrettanta pervasività e violenza della violenza psicologica, il percorso promette di essere ancora molto lungo.

Il virtuale è reale

Quando la realtà virtuale è immersiva e reale, gli atteggiamenti tossici che vi accadono diventano automaticamente qualcosa di reale. Lo sostiene Katherine Cross, specialista degli abusi online all’ateneo di Washington: “Alla fine del discorso, la natura degli spazi di realtà virtuale è tale perché sono progettati affinché l’utente pensi di trovarsi fisicamente in un determinato ambiente e che ogni sua azione corporea avvenga in un contesto tridimensionale. Ecco perché le reazioni emotive possono essere più forti in quello spazio e perché la realtà virtuale attiva lo stesso sistema nervoso interno e le stesse risposte psicologiche“. Peggio degli abusi online per come li conosciamo, insomma.

Lo confermano le parole pubblicate su Facebook dall’utente palpeggiata su Horizon Worlds, per come riportate da The Verge: “Le molestie sessuali non sono uno scherzo su internet tradizionale, ma essere nella realtà virtuale aggiunge un altro livello che rende l’evento più intenso. Non solo sono stata palpeggiata ieri sera, ma c’erano altre persone lì che hanno sostenuto questo comportamento e che mi ha isolata nella Plaza [lo spazio di raccolta centrale dell’ambiente virtuale]”. I famosi “bystander” della realtà e del cyberbullismo: quelli che osservano ma non intervengono e che hanno fatto girare anche i loro avatar dall’altra parte.

Chi deve controllare? E soprattutto, come deve progettare il metaverso?

Dunque, di chi è la responsabilità di rendere questi ambienti sicuri? Se la responsabilità delle azioni è sempre personale, e dunque le azioni commesse online avranno le stesse ricadute che se fossero commessi nella realtà fisica, è complesso pensare che a Oculus e Meta basti fornire agli utenti delle funzionalità di sicurezza per mettersi rapidamente al sicuro in casi come questi. La posizione del colosso è per ora condivisibile (“Non è mai colpa dell’utente se non usa tutte le funzioni che offriamo” ha spiegato la portavoce Kristina Milian) ma, appunto, l’impressione è che la partita in ballo sia ancora più importante di quanto abbiamo vissuto finora.

La questione è dunque strutturale. Lo conferma ancora Cross, spiegando che “quando le aziende affrontano l’abuso online, la loro soluzione è esternalizzarlo all’utente e dire: ‘Qui, ti diamo il potere di prenderti cura di te stesso’“. Bene, appunto, ma non basta. Sicurezza per design significherebbe, ad esempio, mantenere gli avatar a distanza di sicurezza finché non accettino, come in un’app di dating, di entrare in prossimità l’uno con l’altro. Oppure, nelle sessioni iniziali dedicate ai nuovi utenti, riannodare i fili degli atteggiamenti sulle piattaforme virtuali alle norme che si violerebbero nel mondo reale, e che appunto verrebbero infrante anche da un avatar. C’è molta strada da fare e, a quanto pare, stiamo già inseguendo.

“Non dobbiamo farci trovare impreparati”

“Quanto accaduto con le big tech ci lascia in eredità un grande vantaggio: non farci cogliere impreparati dalle inedite sfide del metaverso – spiega a Centodieci Gabriele Franco, Junior Associate Panetta Studio Legale ed esperto di nuove tecnologie, privacy e cybersecurity – per molto tempo le grandi piattaforme di internet hanno operato in una sorta di bolla di autoregolamentazione, conquistando così una posizione di enorme potere. Soltanto negli ultimi anni il legislatore, in particolar modo europeo, è intervenuto per disciplinare questo settore e attualmente sono in fase di approvazione alcune proposte di regolamento che andranno a incidere sia sull’offerta di servizi digitali che sul mercato digitale. Questa è la strategia che dovrà essere adottata per definire il quadro di regole da applicare al metaverso, questa volta però giocando d’anticipo. Anche perché i temi sul tavolo sono numerosi, pensiamo soltanto a chi dovrà intervenire in caso di condotte illecite perpetuate nel mondo reale/virtuale. Insomma, occorre interrogarsi oggi su quale sarà il diritto del metaverso di domani”.

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